L’attuale “Circolo Jacoppini” nacque a Roncitelli nel 1913. Il Comitato promotore era composto da: Dott Matteucci Giacomo, Carbonari Giovanni, Carbonari Romualdo, Bellocchi Giuseppe, Carbonari Cesare, Lucarelli Giuseppe, Carbonari Emilio, Piantanelli Giacomo, Crivellini Gustavo, Federiconi Aroldo con il sostegno del filantropo Alessandro Jacoppini.
Venne costruito il locale, al piano terra, con il concorso ed il lavoro di tanti Paesani, (i mastri muratori di Roncitelli), venne inaugurato il 6 luglio 1913 e venne chiamato “Casa del Popolo” con la scritta sulla facciata.
Nel 1922, con l’avvento del Fascismo, la “Casa del Popolo” fu interdetta ed il Circolo venne chiuso. Riprese ad essere frequentato come Dopolavoro negli anni trenta, poi la Guerra portò il noto scompiglio. Le attività e le iniziative di questo periodo non sono state ricostruite con precisione. Nel dopoguerra riprese l’attività come Circolo CRAL ENAL. In quel periodo diventò punto di riferimento e di ritrovo principale del Paese. Sono note, tra l’altro, le serate danzanti con l’orchestra”BLUES”, con il fisarmonicista “PIERFEDERICI” ed il chitarrista “MEZZCHIL” che attiravano giovani e meno giovani da tutto il circondario. Venne realizzata la sede estiva all’aperto (ancora in funzione). Tra le altre cose occorre ricordare e (se possibile) documentare la “SAGRA DEL FEGATELLO” che divenne una delle manifestazioni più quotate della zona e che si tenne per oltre trenta edizioni, iniziativa che coinvolgeva l’intero paese. In questo periodo si svolsero anche altre attività che sarebbe bello poter ricostruire. Negli anni ’70, sempre con il lavoro dei Paesani, venne costruito il primo piano soprattutto grazie alla volontà ed all’impegno del Geometra e Consigliere Sagrati Renzo. Il Circolo aderì poi all’ARCI-UISP. Nel 1985 grazie all’impegno ed alle ricerche dello storico e Segretario Mosci Giorgio venne costituto lo Statuto ed il Circolo prese il nome di “Circolo Alessandro Jacoppini”. All’evento fu dato il giusto risalto ed all’interno venne scoperta la Lapide con i nomi dei fondatori
Gente di Roncitelli del NovecentoRagazze di Roncitelli del NovecentoRagazze di Roncitelli sull’altalena anni ’60Famiglia TorreggianiAgrippina-Dante-Paola-Laura Ballanti-Getullio.Bernardini Aldo e Galli Marianna in moto.
Anna Tamanti scrittice del libro “RONCITELLI – Note di vita sociale, economica e religiosa da un Cabreo del 700”
Insegnante, storica, scrittrice, ha ideato e promosso per anni la rievocazione storica “LA CHIAVE DI CICHINO”
La professoressa Anna Tamanti Fronzi era l’anima della vita culturale e sociale di Roncitelli. Tantissime iniziative portano infatti la sua firma e sono nate grazie ai suoi studi e alla sua instancabile voglia di conoscenza.
Fresca di laurea in lettere a Bologna negli anni 60 divenne una giovanissima e stimatissima insegnante di italiano adorata da tutti i suoi alunni per la grinta e il potere di coinvolgere i più giovani.
Una volta andata in pensione si è dedicata non solo alla sua famiglia, ma anche ai suoi studi in storia e la letteratura, che tanto ha amato.
Il suo grande impegno sociale negli anni ’80.
Quando il marito Umbero Fronzi era presidente del Circolo Acli, grazie a lei ed al suo grande amico Renato Verdenelli vennero organizzate rappresentazioni teatrali e dialettali.
Negli anni ’90 si impegnò per l’apertura del Centro Sociale e scrisse un libro sulla sua amata
– Roncitelli – “Note di vita sociale, economica e religiosa da un Cabreo del Settecento”.
In copertina è riprodotto un disegno tratto da “Historiarum libri duo”, ms. del Vescovo Ridolfi, risalente al 1596 e conservato nella Biblioteca Comunale di Senigallia.
Fu eseguito in occasione della visita Pastorale compiuta dal Vescovo sopracitato a Roncitelli e dovrebbe rappresentarne il Castello: tuttavia la rappresentazione anche se piuttosto suggestiva è poco realistica. L’incongruenza principale è costituita dalla Chiesa che, sembrerebbe quella del Rosario, entro il Castello, ma che, all’epoca in cui fu eseguito il disegno, non esisteva ancora. La raffigurazione deve quindi intendersi come il tentativo di rappresentare il Castello e parte del Borgo, dove però la Chiesa di San Sebastiano, precedente all’odierna parrocchiale, non viene posta nella sua reale Ubicazione.
Da questo libro è poi nata la rievocazione storica “La Chiave di Cichino”, che vedeva coinvolti tutti i cittadini in una manifestazione molto emozionante e suggestiva. Sempre mossa da una grande curiosità, studiò anche le tradizioni della frazione e grazie anche a lei fu aperto il “Centro di Documentazione Storica”.
“Ad Alberto Polverari spetta il merito di aver acceso in me l’interesse per la ricerca. La fortuna ha voluto che il primo documento di storia locale in cui mi imbattessi fosse il -Cabreo delle Possessioni parrocchiali- E’ impossibile esprimere le emozioni che esso mi ha trasmesso: certo è che perdendomi nelle immagini del passato che i disegni evocavano, ho sentito imperioso il desiderio di disseppellire questo passato e farlo conoscere ai Roncitellesi di oggi. Ad essi infatti è soprattutto dedicato questo libro, affinchè sappiano come anche il loro Paese visse la sua parte di Storia.”Anna Tamanti
Nel 1997, prima della ideazione della Rievocazione storica, in occasione della produzione del Video dedicato all’amico Toto Marinelli, Anna Tamanti si è impegnata a scrivere e leggere i testi. Nel video proposto qui sotto possiamo quindi vedere il suo amico Toto ed ascoltare la sua voce ed i suoi testi.
“Nella dolce collina di Roncitelli a pochi Kilometri da Senigallia vive e lavora Antonio Marinelli detto “Toto” dagli amici, fedele custode di una tradizione contadina ormai scomparsa. Già dal verde ridente che circonda la sua casa si può avvertire l’amore che lo lega alle cose di una volta. Ha trasformato una tagliatuberi in una fioriera, ma la sua abilità è eccezionale nella riproduzione fedelissima del vecchio mondo contadino. Guardando i suoi lavori l’illusione è perfetta. Chi per un attimo non pensa di aver fatto un salto nel passato, di trovarsi veramente in un’aia per la celebrazione di quello che era il più importante rito della vita agricola di una volta, cioè la trebbiatura ? La casa che fa da sfondo a questa illusione è infatti la riproduzione perfetta della vecchia abitazione della famiglia Schiaroli, detta Marchegin, legata alla mezzadria nel territorio di Roncitelli da oltre duecento anni. L’incantesimo è assoluto se ci si avvicina al portone per dare una sbirciatina alla fuga delle scale. Nell’aia è in azione la trebbiatrice che ingoia le bionde spighe per dividere i chicchi dalla pula, mentre dal comignolo esce un denso fumo. Girano incessantemente le pulegge nel fracasso assordante dei motori. Il contadino aiutato da parenti e amici, suda a trasportare senza posa i sacchi, ma il peso della bascula lo riempie di gioia, assicurandogli il pane per tutto l’anno e già gusta il buon odore di farina che riempirà la sua dispensa. Il torchio per le olive è pronto accanto al frantoio azionato faticosamente dall’asinello. Anche il resto della famiglia è all’opera intenta ai vari lavori che la rendono pressochè autosufficiente. Il piede dell’arrotino aziona senza posa la ruota per affilare le lame che serviranno a tagliare arrosti e prosciutti. L’arcolaio è in funzione accanto al telaio. La brava Vergara provvede agli abiti per tutti i famigliari, mentre la giovinetta preparando lenzuola e tovaglie sogna le nozze ormai prossime. In un angolo fanno bella mostra di sè i vari attrezzi che vengono usati quotidianamente, forche, rastrelli, zappe, vanghe, falci e roncole. Sul bordo del vecchio pozzo il secchio riposa per un attimo, in attesa che qualcuno venga di nuovo ad azionare la carrucola. Il vecchio aratro trascinato dalle belle mucche Marchigiane provvede a preparare la terra per la semina guidato dall’abile mano del contadino che affida al gesto tutte le sue speranze di un raccolto generoso. Le mucche Galantì e Faurì tutte lustre e infiocchettate si apprestano a trainare il carretto variopinto che trasporterà i prodotti della terra al vicino Consorzio, pronte a fare il loro dovere anche per tutte le occasioni di festa, un matrimonio, la fiera in paese, una gita in città. Ma ecco l’elegante calesse con il cavallino nero tirato a lucido che ha trasportato dalla vicina città, il Padrone immancabile al momento dedlla trebbiatura e della vendemmia. La cantina è pronta. Il grosso torchio attende le casse di buona uva da trasformare in vino generoso che riempirà le belle botti per tutto l’anno. La vecchia casa imersa nel sole ormai tiepido dell’autunno guarda serenamente al lungo inverno,grata alla natura per i suoi doni in attesa della primavera quando con fatica e sudore ma anche con tanta gioia si riprenderà l’eterno lavoro dei campi.” Anna Tamanti
In occasione della produzione del Video dedicato a Toto Marinelli nel 1997, Anna Tamanti si è impegnata a scrivere e leggere i testi.
Purtroppo, nel 2006, quando si ammalò, dovette allontanarsi dalla partecipazione attiva e dagli incarichi che ricopriva. Mai dimenticata dalla famiglia e dai cittadini, le iniziative da lei create meritano di essere salvate e continuare in suo nome per le generazioni future.
5 aprile 2011
Lettera del Centro Sociale Roncitelli
ANNA TAMANTI CI HA LASCIATO
Dopo una lunga e terribiloe malattia, il 1 aprile 2011 all’età di 71 anni è venuta a mancare la prof. Anna Tamanti Fronzi. Ex insegnante appassionata di Storia e Letteratura, si era impegnata a fondo, dopo l’insegnamento, nelle iniziative Sociali e Culturali di Roncitelli a cominciare dalle iniziative di recitazini teatrali in dialetto che costituivano la parte fondamentale della “Settimana in Collina” che negli anni ’80 veniva organizzata al Circolo ACLI di Roncitelli. Nel 1992 Anna, dopo approfondite ricerche e la scoperta di un Cabreo delle possessioni Parrocchiali, ha pubblicato il Volume “Roncitelli note di vita Sociale Economica e Religiosa da un Cabreo del settecento”. Ha raccolto poi la presidenza del “Centro Sociale Roncitelli” fin dai primi tentativi di costituzione, e dopo poco ha inventato la rievocazione storica “La Chiave di Cichino” che si è affermata come la manifestazione storica più apprezzata del nostro Territorio. Dalla ricerca storica è nata poi l’idea della costituzione di un Centro di Documentazione Storica di Roncitelli” alla realizzazione del quale Anna ha contribuito in modo determinante, fino a quando nel 2007 la malattia non l’ha costretta a ridimensionare il suo impegno. Molto attiva ed impegnata anche in Parrocchia ed in generale su tutti i problemi della Frazione con Anna se ne va un pezzo di storia della nostra Frazione. Nel ricordarla il Comitato del Centro Sociale Roncitelli rinnova la partecipazione al dolore del nostro caro amico e marito Umberto Fronzi, ai figli ed all’intera Famiglia
CIAO ANNA RESTERAI A LUNGO NEI NOSTRI CUORI
05-04-2011 Il Comitato del Centro Sociale Roncitelli
I Centri Sociali nel Comune di Senigallia sono stati costituiti con delibera dell’amministrazione comunale; essi sono stati gestiti attraverso l’ufficio decentramento e delle circoscrizioni come strumenti di aggregazione culturale, sociale e ricreativa della cittadinanza. Il Comune ha contribuito alla loro attività mettendo a disposizione la struttura sociale ed un contributo per le spese logistiche. A Roncitelli il Centro Sociale ha iniziato la sua attività nel 1994 quando, per carenza di alunni, è stata chiusa la scuola elementare: infatti la sede era ubicata al primo piano dell’ex plesso scolastico, dove si svolgevano gli incontri e alcune attività e dove sono ancora sistemate la biblioteca la sala riunioni, nonchè il magazzino. Dalla sua costituzione il Centro Sociale ha svolto molte attività che qui cerchiamo di evidenziare. Il primo presidente designato è stato Daniele Verdenelli che con un comitato di gestione composto da molti giovani ha organizzato le prime iniziative, tra cui “Rockcocomero”,
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la “Guarapachanga”,
realizzate al campo sportivo e i primi numeri del giornalino “IL SABATO DEL VILLAGGIO”. Nel 1996 la presidenza è passata alla professoressa Anna Tamanti Fronzi con la quale le attività si sono qualificate e si sono moltiplicate. Nel 1998 è nata la rievocazione storica “LA CHIAVE DI CICHINO”
che si è qualificata tra le rievocazioni storiche più considerate della zona e che rimane l’iniziativa più coinvolgente di Roncitelli. Vanno poi ricordati: IL CARRO DI CARNEVALE” con le manifestazioni carnevalesche in paese e in città, LA FESTA DI PRIMAVERA, con la passeggiata ecologica, I CORSI DI GINNASTICA PER ADULTI, I CORSI DI CHITARRA PER BAMBINI, I CORSI DI BALLO PER ADULTI E BAMBINI, LE CONFERENZE SUI PROBLEMI DEL PAESE, SUL DISAGIO GIOVANILE, LE GITE SOCIALI, LE FESTE DI COMPLEANNO ed altro ancora. Nel 2002 la presidenza è passata a Giancarlo Galli, sotto la cui guida il Centro Sociale ha cercato di migliorare la sua attività stimolando la partecipazione di tutto il paese. Nel 2008 la presidenza è passata a Roberto Zappacosta.
Dopo il ritrovamento di un importantissimo documento che riportiamo sotto, la professoressa Anna Tamanti ha promosso a Roncitelli nel 1998 una grandiosa Rievocazione Storica denominata: LA CHIAVE DI CICHINO
Questo è il documento:
“Il 18 luglio 1335 alla presenza di Don Vita abate di S. Genesio, di Don Angelo priore di S. Medardo, di Baldo Della Torre, di Francesco e Federico Mannuzzi, di Don Nicola del signor Nunzio, di Don Solazio canonico del vescovato senigalliese, di Cicco Pietro e di Paganino di Tomassuccio di Rocca Contrada e di molti altri colà esistenti chiamati per ciò, io vescovo Ugolino entrai, ricevetti e presi possesso materialmente del castello di Roncitelli del territorio di Senigallia e del fortilizio in esso esistente, accogliendo le chiavi della porta del castello e quella del fortilizio, tenendole presso di me, entrando e sostando (nel castello e nel fortilizio) e lasciando nel fortilizio servi e custodi per la Chiesa di Roma (per il Papa), i quali con grande cura debbano custodirlo e a nessuno consegnarlo se non ad uno speciale nunzio del Papa, del legato Albornoz o di me Vescovo.
Nominai anche capitano del castello Cicchino di Giunta di Roncitelli, affidandogli le chiavi del castello e del fortilizio che egli deve fedelmente custodire e a nessuno consegnare se non ad un nunzio del Papa o del Legato o di me Vescovo, sotto pena di mille fiorini d’oro.
Egli dovrà obbedire agli ordini del vicario di Senigallia (Albornoz).
Il capitano prestò giuramento di osservare quanto gli è stato affidato toccando le Sacre Scritture.
Tutto ciò avvenne alla presenza di Cecco di Vanni notaio di Rocca Contrada.”
Foto della Rievocazione Storica di questo evento (1998)
Un video del 2001 andato in onda su Rete 4 ci ricorda personaggi e sfilate della CHIAVE DI CICHINO.
Nel 2012 il TG itinerante fa tappa a Roncitelli e Maurizio Blasi, intervistando alcune persone del luogo, presenta le bellezze, le attività, e la cultura del Paese. Il servizio va in onda in diretta su Rai 3 il 29 luglio 2012.
BIOGRAFIA Armando Ballanti è nato a Roncitelli il 19 settembre 1921 e quì si è spento il 30 marzo 2009.
È stato un pittore autodidatta. Dopo aver frequentato le elementari ha lavorato come muratore e marmista, volgendosi poi alla pittura, e in parte anche alla scultura, per vera passione naturale.
MOSTRE Ha allestito alcune personali ed ha partecipato a varie rassegne collettive, tra cui, nel 1971, il premio San Giorgio di Piano (BO). Sue opere si trovano in collezioni private in Italia e all’estero.
PREMI Presente a concorsi, ha ottenuto premi e riconoscimenti.
BIBLIOGRAFIA La critica si è occupata della sua attività in più occasioni. Hanno scritto di lui, tra gli altri: Renato Lucchetti, Franco Bologna, Marco Pomi.
TESTO CRITICO “Armando Ballanti è pittore autodidatta, ma niente nelle sue tele suscita l’immagine del dilettante. I suoi paesaggi, quasi sempre scorci di colline marchigiane, rivelano a prima vista una conoscenza profonda, da vero e proprio professionista, della tradizione paesistica degli Impressionisti e dei Macchiaioli. Nei quadri di Ballanti la scena si distende in un’atmosfera limpida che permette di individuare, fino al limite dell’orizzonte, le cime degli alberi e i profili delle colline.
La tavolozza è calda, ben accordata nelle tonalità del giallo e dell’ocra in tutte le loro sfumature e illuminata da improvvise striature di un bianco abbagliante. Sono proprio questi tocchi personalissimi di bianco ad incrinare l’impostazione tradizionale dell’insieme. Queste placide scene di paesaggio, organizzate secondo uno schema in fondo un po’ banale, si animano, grazie a queste sottili striature di una inquietudine che nega l’apparente tranquillità della scena. Ecco allora che nell’atmosfera di illusoria serenità e nella solenne compostezza dell’immagine si insinua un elemento di disturbo, appunto questi tocchi di un bianco quasi fosforescente, a suggerire un’atmosfera irreale, di incubo. Questo ambiguo rapporto tra realtà e sogno è ancora più evidente ed interessante nei ritratti che, nella produzione artistica di Armando Ballanti, sono particolarmente numerosi.
Il soggetto allora domina e campeggia sull’intera tela come una apparizione fantastica, illuminata di bagliori inquietanti. Alla concreta definizione plastica dei volti, che indaga con profondità la psicologia del soggetto, si contrappone la stilizzazione del busto, che suggerisce appunto l’idea di un’incorporea apparizione. Bisogna inoltre sottolineare come ad una ritrattistica di questo genere non siano certamente ignote né la lezione espressionista di un Grosz né le informazioni spettrali di un Bacon. Anche un’analisi affrettata delle opere di Armando Ballanti smentisce immediatamente l’idea che un paesista o un ritrattista non possa esprimersi con un linguaggio estremamente interessante e soprattutto attuale.
Ad Armando Ballanti bisogna riconoscere il merito di aver saputo trovare una sua collocazione autonoma ed originale nel panorama artistico contemporaneo Italiano ed Europeo.”
Commento del critico Marco Pomi
Video prodotto da Ivaldo Marconi nel 2021 dedicato all’amico Armando Ballanti nel centenario della sua nascita.
Armando ha anche scritto pagine di ricordi interessantissime
I PRIMI VENTI ANNI DELLA MIA VITA
Il paese ove sono nato si chiama Roncitelli di Senigallia. Abitavo in via Borgo S. Giovanni. Uno dei primi ricordi è quello del terremoto del 1930. in cucina c’era la mattera, una specie di cassone ove si teneva il pane e sopra in alto, circa due metri e cinquanta, vi era una tavola con sopra dei bottiglioni contenenti vino. Il terremoto li faceva tremare al punto di farli cadere. Mia madre che si chiamava Barbara gridava “Scappa, scappa, ti cadono le bottiglie in testa” e in un momento sono cadute. Ricordo bene come fosse adesso. Ricordo anche le elezioni politiche nel periodo fascista, sempre nel 1924, che si svolsero nei locali della scuola elementare da poco costruita. Dalla chiesa di S. Liberata alla scuola ogni 10 metri circa c’era un milite fascista in divisa con tanto di fucile e cosi pure dall’edicoletta delle quattro figure sino alla scuola ogni 10 metri un altro milite in assetto militare. Nel ’24 nacque mia sorella Armanda e nel 1925 mia sorella Laura. Ricordo che nel 1926 costruirono la torre dell’acquedotto, vicino alla scuola e in paese finalmente venne l’acqua. Prima di tale evento l’acqua si andava a prenderla nelle sorgenti naturali: una era la fonte cosi detta del Papalino, un agricoltore così appunto chiamato, altra sorgente era la fonte di Sartini: la prima a est del paese, la seconda a ovest. Sin da piccolo sono stato sempre con istinto vivace e dispettoso sin da quando si faceva la fila aspettando che le brocche contenenti acqua si riempissero. I dispetti tra coetanei e coetanee non mancavano ma i più grandi dicevano:- Armando, sei sempre tu il più dispettoso, non si sa cosa ci farà con te tua madre quando sarai più grande. Ricordo che abitavamo in via Borgo S. Giovanni, nella casa di Fraboni Giovanni e la sorella Emma, la madre si chiamava Angelina ed era amica di mia madre. Nel 1926 mia sorella Laura aveva un anno, ai primi passi cadde, non ricordo come battè la testa e sembrava che non si riprendesse. Mia madre piangeva, i vicini chi la batteva di qua chi dì là. Alla fine lei rinvenne. Il tempo scorreva allegramente per noi ragazzi, non c’era l’asilo e cosi si era liberi di scorrazzare nei campi a fregare frutti e poi a nasconderci dietro i pagliai. Si partiva in circa 15 ragazzi e si andava a fare il bagno nei gorghi dei torrenti, allora nei fossi attorno alle valli del paese c’era più acqua e si poteva anche bere. I più grandi ci pescavano le anguille, le rane, nelle campagne molti uccelli di diverse qualità. Si andava a cercare nidi sugli alberi, d’inverno si prendevano uccellini con la rete poi si uccidevano per farci la polenta. Era il più bel periodo di libertà pura che si addiceva al mio carattere. A quell’età cominciai a scoprire il sesso con le mie amichette di giochi, allora c’era la libertà. Poi nel 1928 cominciai la scuola, allora la mia maestra era una di Rimini che abitava a Senigallia e veniva al mio paese in bicicletta, ricordo che in prima classe eravamo 22 ragazzi. Cominciò la disciplina, il regime di allora ci obbligava la divisa di Balilla. Ricordo che mia madre faceva la sarta ed era la più rinomata al mio paese. Allora cominciarono per me le prime ribellioni, quando mi vestivo con la divisa mi sentivo come un pupazzo, come i pupazzi che i contadini mettevano ai bordi dei campi per spaventare gli uccelli. Mia madre proveniva da una famiglia di muratori che già allora facevano gli imprenditori. Mio nonno Leopoldo rimase vedovo quando io avevo 6 mesi perciò non conobbi mai la mia nonna materna, mentre mio padre proveniva da Ostra Vetere e rimase orfano all’età di 12 anni. Era povero. Invece il cugino di mia madre, piccolo imprenditore, acquistò la prima automobile che si vide in paese, allora la chiamavano la 509, poi vidi la prima motocicletta del barbiere del mio paese, certo Bacchi Ginesio, poi la seconda da un commerciante di vini, un certo Spadoni Raniero, quella motocicletta si chiamava BSA e dicevano che era di marca inglese. Allora al mio paese vi erano 3 calzolai, 2 sarti tra cui il più bravo era mio zio, marito di zia Uldina, sorella di mia madre, c’erano 3 osterie, 3 falegnami, un calderaio, 3 pettinai per le donne che pag.1
avevano i telai per tessere le tela. Il figlio di un pettinaio che si chiamava Tagliano, Renato, aveva due anni meno di me, ma diventammo amici ed anche oggi siamo amici carissimi C’era e c’è ancora il Circolo che allora si chiamava casa del Popolo, poi con il fascismo cambió nome e si chiamò Opera Nazionale dopolavoro, mentre nelle magliette di noi Balilla c’era scritto “Opera nazionale Balilla”. La sigla era cosi: O.N.B. lo sotto con l’inchiostro ci scrissi ONORATE NOI BAMBOCCI e con quella scritta ci andai a scuola e siccome la scuola c’era due volte al giorno, dalle 8 alle 12 a e dalle 14 alle 17, la maestra per punizione non mi mando a casa a mangiare: Mia madre che era una santa donna venne a vedere e la maestra le mostró la scritta che avevo fatto sulla maglietta: onorate noi bambocci. Le femminucce erano “Piccole italiane” eleganti con camicetta bianca, fiocco celeste e gonnellina nera plissettata. Quando facevamo la ginnastica e loro si abhassavano per dei movimenti, noi ріù dispettosi ci sporgevamo dalla fila per guardare le loro gambette, allora la maestra gridava, ricordo: “Armando, stai in riga”. Io le rispondevo: “Mi fa male la schiena” – “Ti metto in castigo, sei sempre tu il più dispettoso”. I saggi ginnici si facevano davanti alla chiesa dove c’è il monumento ai caduti. Nel 1928 per mancanza di lavoro mio padre fu costretto ad emigrare a Rodi nell’Egeo, nelle isole del Dodecanneso con altri paesani, perché eravamo 3 figli. Allora cominciai a capire le ingiustizie della vita. Quando arrivava un lettera ero il primo ad andare dal postino, poi correvo da mia madre gridando “Mamma, ha scritto babbo”. Fu il primo Natale con mio padre emigrato. Quando si avvicinavano le feste di Natale si andava in campagna dai contadini a chiedere un po’ di legna per scaldarsi. L’inverno si avvicinava. Bisognava andare il 6 gennaio con la vecchia in un canestro, un pupazzo chiamato la befana, per accumulare qualche uovo e qualche soldino, inoltre al mattino si andava alla messe per il morto di una data famiglia e i famigliari del morto a chi ascoltava la messa per il proprio caro distribuivano qualche soldino: 4 soldi, 2 soldi, e cosi durante la settimana si accumulava qualcosa per la domenica. Al Circolo si svolgevano della feste da ballo ed era una festa per tutti, però se il genitore non era socio del circolo non si poteva entrare. Nel 1929 frequentavo la seconda classe elementare sempre con la stessa maestra Stramigale. Quello fu l’anno chiamato del nevone: incominciò a nevicare il 2 febbraio e smise il 7 aprile, fece tanta neve che chiusero la scuola perché i maestri non potevano venire in bicicletta. C’era la neve alta da un metro a un metro e mezzo. I più grandi, dieci, venti persone, si misero al lavoro per aprire la strada per far passare i cavalli per andare in città a rifornirsi di viveri. Vicino a casa mia c’era un mio amico che si chiamava Tonino di cui la madre aveva un piccolo negozio dei generi alimentari. Le sue condizioni economiche erano migliori delle nostre, lui aveva una piccola pala giocattolo con cui giocava sulla spiaggia d’estate quando andava al mare e d’inverno ci giocava con la neve. Io non potevo permetterla. Ricordo che era la fine di febbraio del 1929, avevo 8 anni. Trovai una scatola del lucido ROB, me la portai a letto e la nascosi sotto il cuscino. Siccome la scuola era chiusa, al mattino giocavo sul letto con le mie sorelle. Chiamai mia madre Mamma, portami le forbici, lei faceva la sarta e aveva le forbici che le servivano per il lavoro. Erano circa le 11, lei faceva la sfoglia per i quadrelli per il pranzo e mi rispose, ricordo come fosse adesso: “Non te le porto, perché ti fai male”. Conosceva bene il mio carattere. “Piuttosto alzatevi che si avvicina mezzogiorno ed è ora di mangiare”. Mi alzai, scesi in cucina dove c’era il fuoco acceso e fuori tanta neve, tanto freddo. Nella stanza accanto dove mia madre lavorava cercai le forbici di nascosto di mia madre, le trovai dove mia madre, sempre previdente le aveva nascoste, dentro la macchina da cucire Singer che girava a mano perché ancora non c’erano quelle a pedale, mi nascosi dietro la porta della stanza che divideva dalla cucina dove mia madre preparava da mangiare, tirai fuori da sotto la maglia la scatola di latta e cercai di tagliarla con le piccole forbici. Cercavo di non fare rumore per non farmi sentire da mia madre, ma le forbici si incastrarono nella latta e per disincastrarle nel tirar via le forbici, presi nell’occhio destro. Non gli diedi peso. Mia madre ci chiamò me e le mie sorelle. Mentre mangiavo mi lacrimava l’occhio e io lo sfregavo. Mia madre sempre vigile mi disse: “Cosa hai nell’occhio che lo sfreghi sempre”. Io continuavo a dirle che pag.2
non era niente, poi le dissi che avevo trovato le forbici, avevo tagliato la scatola di latta per fare la paletta per buttare via la neve, mi erano sfuggite e avevo preso nell’occhio: E lei: – “Fammi vedere!” -e gridava: “Non mi dai mai retta, sei sempre dispettoso!” poi mia madre, siccome c’era tanta neve, chiamó mio zio, marito di sua sorella Uldina, che mi portò dal medico che abitava in paese e si chiamava Osvaldo Ragaini e gli disse: “Bisogna che lo portate all’Ospedale a fare una visita”. Quando mio zio mi portò a casa mia madre disperata gridava: “Glielo avevo detto che si sarebbe fatto male!” Allora mio zio si preoccupò di parlare con un certo Bonvini che aveva il cavallo con la biga e rimasero d’accordo per la mattina seguente. La mattina seguente partimmo presto, ma c’era tanta neve che dovettero, con le pale, fare la strada al cavallo dal paese sino in cima alla salita della Cannella, una borgata che fa parte della parrocchia di Roncitelli. Verso le ore 11 arrivammo all’ospedale che si trovava in via Cavallotti, all’Opera Pia vicino a porta Mazzini. Mi visitarono e dissero a mio zio di portarmi subito da un oculista ad Ancona. Mio zio tornò in paese con il cavallo con il signor Bonvini e dovette andare da un amico a farsi prestare i soldi per il viaggio. Ricordo che prendemmo il treno. Arrivati in Ancona ci avviammo a piedi da un amico di mio zio e nostro compaesano, certo Perini Paolo che faceva il vigile urbano in Ancona. Erano circa le tre del pomeriggio quando il dottore mi visitò e cominciò a brontolare a mio zio, quasi maltrattandolo: “Ma siete matti! Lo sapete che se tardavate mezza giornata poteva perdere la vista in tutti e due gli occhi ? C’è l’infezione!” Mi medicò, fece ciò che doveva fare con accuratezza dicendo: “Speriamo di fermare l’infezione”, quindi mi bendò l’occhio malato e disse a mio zio che dovevo restare li otto giorni. Mio zio, conoscendo mia madre, disse: “Come faccio? Io sono lo zio, il padre è a lavorare a Rodi, se vado a casa senza il figlio la madre commette qualche gesto malsano” Allora il medico, dopo un po’ più calmo, disse a mio zio di ritornare dopo otto giorni e gli diede un foglio con la cura da fare. Quando mio zio riferi a mia madre ciò che gli aveva detto il medico, che avrei potuto perdere tutti e due gli occhi, lei si mise a gridare: “Non ti volevo dare le forbici, sembrava che qualcuno mi dicesse che ti sarebbe successo qualcosa, ma tu non dai mai retta!” Dopo otto giorni tornammo ad Ancona, il solito medico mi visitò dicendo a mio zio che l’infezione era stata fermata e diede una cura per il medico del paese che dovevo fare per tre mesi, poi sarei dovuto tornare a farmi vedere, però per tre mesi non dovevo andare a scuola. E cosi fu. Mia madre, donna di fede, si raccomandava alla Santa patrona del paese, Santa Liberata. Io non andavo a scuola, ero sempre in giro a prendere uccelletti e mia madre: “Non ti basta quello che ti è successo, ma tanto non stai fermo!” Sin da allora mi piaceva ammirare la natura, i bei tramonti. Certe mattine mi alzavo presto per veder sorgere il sole sul mare che dal mio paese si vede benissimo. Non andando a scuola mi sentivo libero. Mi piaceva disegnare, scarabocchiare su qualsiasi pezzo di carta. Il primo disegno, mi ricordo, fu il mare spazioso con una nave ferma, anzi due navi; le disegnai come mia madre le aveva viste sul mare quando sparavano su Senigallia quando scoppiò la guerra, il 24 maggio 1915, la prima guerra mondiale. Quell’anno non fui promosso. Poi mi piaceva lo sport, ero appassionato di ciclismo, allora c’era rivalità tra Guerra e Binda. A casa c’era la bicicletta di mio padre, una Legnano. Lui non c’era ed io imparai ad andare in bicicletta. Ero sempre in giro con la bicicletta oppure disegnavo sul muro della mia camera da letto (l’avevo riempito tutto di disegni), avevo persino rotto un lenzuolo per pitturarci, ma non avevo i pennelli, pitturavo con le penne d’oca. Al piano di sopra a dove abitavo c’era una ricamatrice, un certa Quinta, era zoppa e aveva della ragazzette che imparavano il mestiere. lo le andavo a trovare perché mi piacevano. La signorina mi diceva: “Quale ti piace di più?” -E io rispondevo: – “Tutte”. Finì l’anno scolastico del 1929, i miei amici erano in vacanza, cosi partivamo in gruppo a fare il bagno al fiume Misa al Vallone, una frazione a tre chilometri dal mio paese. Poi venne settembre e iniziò il nuovo anno scolastico 1929-30. Quasi tutti i miei amici andarono in terza classe, io ripetei la seconda, cosi non ebbi la bella maestra romagnola Stramigioli Gilda. pag.3
Incominciavano i primi discorsi politici di Mussolini. Dal 1930 il Circolo che si chiamava “Casa del popolo”. Cambiò nome e si chiamò “Opera nazionale dopolavoro”. Quell’anno fui promosso, poi tornò mio padre dall’estero dopo tre anni. lo cominciai a conoscerlo tardi, mio padre, ricordo di mia madre che era incinta, ma dopo tre mesi abortì. Era il quarto figlio. Allora costruivano in paese vicino alla chiesa la nuova casa del parroco e c’erano dei muratori di Pisa. Il figlio di un muratore si chiamava Caffiero ed era mio amico. Mia madre prima di portare il fratellino al cimitero, mi fece contento. Io chiamai Cafiero e me lo fece vedere. Lo avevano messo dentro una scatola delle scarpe. Quell’estate, tra giochi e dispetti, ebbi le prime botte da mio padre, perché ero andato a comprare da solo con la bicicletta la Gazzetta dello sport per vedere le foto dei corridori Guerra e Binda. Quella fu la prima e l’unica volta che mio padre mi diede due scapaccioni. Iniziai la terza classe con un maestro severo che abitava nel mio paese, un certo Carbonari, un fascista della prim’ora; alto, robusto, severo, però devo dire che insegnava con impegno dovevi imparare e basta. Il 30 ottobre del 1930 al mattino, alle ore 8, mentre uscivo di casa per andare a scuola, venne il terremoto. Vidi l’angolo della case dove abitavo, i fili della luce tra la casa dove abitavo e quella vicina di un certo Spadoni, ora lenti ora tirati, si ruppero e crollò anche quell’angolo della casa. Poi vidi crollare un pezzo del campanile della chiesa,. Crollò anche la torre del castello con l’orologio. Chi piangeva, chi urlava, chi sveniva. Vidi svenuta a terra la ricamatrice, la signorina Quinta. A scuola era crollato qualche soffitto. Per un mese si dormì in una stanza a pian terreno per scappare via prima, perché c’erano le scosse di assestamento. A Senigallia ci furono molti crolli e anche dei morti. Siccome di lavoro non ce n’era tanto, sentivo i più grandi dire: Adesso c’è il lavoro ! E sentii un piccolo imprenditore dire: – Qui c’è da guadagnare dei soldi Così, dopo la disgrazia, venne un po di fortuna. Mio padre tornò dall’isola di Rodi. Ricordo che io non lo riconoscevo mio padre. Mia madre gli disse di farmi operare all’occhio e mio padre rispose: Fai come vuoi, ma io ho fatto otto anni di guerra, quattro anni in Libia dal 1911 al 1915, poi 1915-1918. Cosi passò e non ne parlarono più. Ripresi la scuola, glia anni passavano, io ero sempre più vivace e dispettoso. Ero sempre tra le mie compagne di scuola più che tra i compagni. Io ero appassionato per il disegno tant’è vero che nel 1931 feci un presepio con tutti i pupi disegnati da me. Nell’anno scolastico 1932-33 frequentai la quinta elementare ed ebbi di nuovo la maestra Stramigioli, quella che mi aveva fatto la prima e la seconda classe. Di quell’anno ricordo i veglioni di carnevale al Circolo che si chiamava Dopolavoro. La maestra Stramigioli ed un’altra maestra, una slava certa Chravs Emilia, vennero a tre veglioni di Carnevale con abiti da sera lunghi e scollati: ogni sera un abito nuovo abbastanza provocante. La Chravs era innamorata di un giovane, vicino di casa mia, che giocava spesso con me. Spesso e volentieri lo avvicinava con me, sapendo che io disegnavo benino, cercava di farmi fare dei disegni da mettere nella sua scuola, ma lo faceva per avvicinare il mio vicino di casa, questo Corrado, bel giovanotto con due bei baffetti. Mi faceva sempre delle domande su di lui, prendendomi sotto braccio, accarezzandomi; io cominciavo a guardarla. Ricordo che un giorno per farmi delle domande ci sedemmo su di un prato e fu allora che le vidi le gambe fino alle mutandine Aveva un bel seno. Mi fece delle domande, facendomi appoggiare la testa sulle sue cosce. Ricordo che le dissi: Lei, signorina, è innamorata di Corrado. Lei arrossi e tacque. Io le dissi ingenuamente “Ma Corrado è fidanzato” Cosi nacque tra loro un certo attrito. Lei mi avvicinava per sapere di Corrado e dell’altra e a volte mi appoggiava la testa sul seno, fu allora che incominciai a sentirmi un po’ ometto e ad eccitarmi. Molte volte veniva a prendermi per ballare perché io giá ad 11 anni ballavo con tutte quelle della mia età e quando ballavo con le più grandi mi sentivo qualcuno. pag.4
I miei compagni erano un po’ invidiosi. Poi Corrado si sposó e la bella maestrina slava si fece trasferire e non la vidi più. Ricordo bene il 1932. Avevo una grande passione per il disegno e per la pittura e come avevo occasione, imbrattavo sempre, disegnavo sempre, avevo una grande voglia di imparare. Ricordo che feci due quadri su cartoncino 30×40. Mia madre mi disse. Hai speso di nuovo i soldi per la carta e i colori Guarda che sono i soldi che ho guadagnato con la ghianda che ho venduto a Emilio Diamantini. Infatti, quando potevo, andavo a raccogliere ghianda per accumulare qualche lira. Emilio Diamantini era un calzolaio vicino di casa che aveva il maiale e mi comprava la ghianda per ingrassarlo. Quando frequentavo la quinta elementare portarono tutti gli alunni delle classi a fare o saggi ginnici a Senigallia, ma per me, ribelle come ero, vedermi inquadrato come i soldati sotto il sole era una grande sofferenza. Arrivò mezzogiorno, ci portarono da mangiare con delle gavette di tipo militare con dentro dei maccheroni grossi come ciabatte, tutti attaccati l’uno all’altro. Piano piano, invece di mangiare, scappai. Non mi andava di vedere noi ragazzi sotto il sole e i maestri con i dirigenti sotto gli ombrelloni a mangiare pasticcini e bere bibite, cosi tornai a casa a piedi. Quando fecero l’appello per riportarci a casa, mi dissero poi i miei amici che i dirigenti erano preoccupati perché non mi trovavano. Allora il mio amico vicino di casa Galli Antonio disse alla maestra che ero tornato a casa a piedi. Quando rientrarono la sera con il camion, mi trovarono nel piazzale della chiesa a giocare a pallone. Nel periodo fascista molte altre cose vennero istituite a Senigallia, come l’Ospedale, lo Stadio, la Rotonda a mare e molte case popolari, il Linificio, il Consorzio agrario, la G.IL. (casa della gioventù del littorio), e altre cose nelle frazioni. Tornò la primavera. Al mio paese c’era una festa da ballo e io ero sempre il primo con le mie amichette. Poi venne la Santa Pasqua e la seconda festa di Pasqua andai al Circolo a ballare. Ancora i ragazzi non pagavano e tornai a casa un po’ tardi. Mia madre, vedendomi tutto bagnato dal sudore, mi brontoló e mi diede due sculacciate. Allora mia zia, sorella di mia madre le disse: “Cosa meni? 12. Quello ormai ha anni e mena te! E poi vedi che è sempre dietro a quelle ragazzette a ballare.” Cosi venne la seconda domenica di maggio, la festa di Santa Liberata, il giorno della mia Prima Comunione Salutai la mia maestra, la signorina Stramigioli; lei si mise a piangere e mi abbracció dicendo a mia madre:- E’ stato il più vivace e il più dispettoso, quello che mi ha fatto arrabbiare più di tutti, ma anche il più generoso, sempre pronto quando gli chiedevo qualcosa. Ricordo che disse anche a mia madre “Questo ragazzo è portato per il disegno, se potete fatelo studiare.” Ma mia madre rispose: “Ho quattro figli e mio marito è un semplice muratore. ” Poi si salutarono e non vidi più la mia maestra. Ricordo che quei due quadretti li mandai a Mussolini che allora governava l’Italia e diceva che aiutava i poveri. Dopo un po’ di tempo che avevo mandato via quei quadretti, il postino disse a mia madre Barbara, c’è una raccomandata per suo figlio Armando. e la fece firmare. Mia madre, paurosa come era, disse: -“Adesso cosa mi ha combinato?” E il postino: “Non so, viene da Roma” Mia madre con le mani tremanti mi disse: “Tu me ne combini di tutti i colori, mi fai sempre arrabbiare.” Lesse con mio zio Armando la raccomandata che era del segretario del Partito fascista, che mi rispondeva per i due quadretti che avevo mandato a Mussolini, dicendomi che se volevo andare a scuola, mi avrebbero mandato all’Accademia di belle arti di Urbino esonerandomi da qualsiasi tassa scolastica. Infatti allora, per andare a scuola, si pagavano le tasse e solo i benestanti ci potevano andare. La sera, quando mio padre tornò dal lavoro, mia madre gli fece leggere la lettera, mio padre mi guardó e disse: “Ma dove vai, chi ti dà da mangiare? Siamo poveri” e finì così. La scuola era terminata. A giugno andai a mietere il grano da un grosso contadino, certo Schiaroli soprannominato Marchgin: erano 34 in famiglia. La sera, dopo una giornata di duro lavoro, si mangiava sull’aia ed uno dei componenti della famiglia Schiaroli suonava la fisarmonica, cosi si ballava sull’aia e le ragazze più grandi di me e più alte mi venivano a chiamare, io, con la testa, arrivavo al loro seno.. pag.5
Ricordo che mia madre mi diede una parte dei soldi della mietitura per comprarmi un paio di sandali e una maglietta. Io i sandali li comprai a Senigallia, ma la maglietta no, comprai invece la prima scatola di acquerelli e due pennelli. Quando andai a casa mia madre mi vide i sandali, ma non la maglietta, mi chiese: “E la maglia, non l’hai comprata?” Io risposi – “Ho comprato i colori e due pennelli” e mia madre: “Tutti li butti i soldi!” e seguitò a brontolare mentre io mi sentivo qualcuno con quei colori e quei pennelli. Poi venne il mese di luglio del 1933. Il regime fascista che governava faceva propaganda contro l’Abissinia. La vita costava sempre più cara, la miseria aumentava, la paga di mio padre a stento arrivava alla fine del mese, così io e i miei amici andammo a lavorare con i muratori. A me e al mio compagno di scuola Gino, non ci iscrissero come manovali, ma come garzoni, cosi feci il mio primo libretto di lavoro. Andavo a lavorare a Senigallia con la bicicletta di mio padre e lui, pover’uomo, andava a piedi al mattino e la sera, cioè otto chilometri al mattino e otto la sera. Non lo dimenticherò mai, a vederlo soffrire. A volte andavamo in due in bicicletta. La sera, quando mio padre tornava a casa a piedi, un mio zio che faceva l’imprenditore tornava in paese con la macchina, ma a mio padre non lo faceva salire. A me queste cose davano fastidio. L’impresa in cui lavoravo era di Montesi Gaspare, soprannominato Gasparin; anche lui era del mio paese, aveva dei capi operai tutti compaesani, che ti controllavano come ti comportavi e pretendevano rispetto. A me, per il mio carattere libero, non andava giù quel servilismo. Mi sfogavo con mia madre e lei mi diceva sempre: “Stai calmo, porta pazienza, c’è bisogno di guadagnare qualcosa, la vita è sempre più cara.” Terminato il primo mese presi la prima paga: era di 5 lire e 12 soldi al giorno. Già mi sembrava di essere qualcuno. Il lavoro era duro, allora non c’erano impastatrici, né montacarichi, tutto a mano e sulle spalle e tenevano conto ben poco che non c’era l’età, dovevi lavorare come i grandi. Di bello c’era che eri in regola con la previdenza sociale, con l’infortunio sul lavoro. Queste istituzioni le fece il fascismo e le imprese le rispettavano, se no erano guai seri. Quell’anno cominciai a versare i contributi: avevo 12 anni e 10 mesi. Quell’anno mia madre partorì un altro figlio, che chiamarono Caffiero come l’altro che era morto nel 1931. Ricordo che la domenica pomeriggio dopo la benedizione mio padre doveva portare mio fratello in chiesa per farlo battezzare, ma poiché pioveva forte arrivammo in ritardo; il parroco don Alfredo Montagna si arrabbiò. Mio padre con calma cercò di spiegargli il motivo del ritardo, ma il parroco non si calmava, allora mio padre ribattè: “Senta, senza che si arrabbi tanto, se lo battezza va bene, altrimenti lo riporto a casa.” Allora il parroco si calmò ed eseguì la funzione religiosa. Dopo tre mesi il lavoro terminó e andammo a lavorare sempre con la stessa impresa alla colonia dell’ENEL che allora si chiamava UNES e lì vennero la prima betoniera e il primo montacarichi, per cui il lavoro si alleggerì un po’, ma era sempre duro. A me poi non andava quel tipo di servilismo che pretendevano i ruffiani del padrone. Venne l’inverno, io lavoravo poco perché ti facevano fare il lavoro da grande con la paga da garzone. Mio padre lavorava 15 giorni si e 15 giorni no, mentre la famiglia era aumentata. Terminata la scuola, mio padre mandó mia sorella Laura da una signora come figlia per alleggerire il peso alla famiglia, ma mia sorella dopo una settimana volle tornare a casa. Il governo si preparava alla guerra in Africa, faceva propaganda che l’Etiopia era nostra. Ricordo che dapprima Mussolini cercó con tutte le buone maniere di convincere il Negus, re di Etiopia, di accettare i nostri operai a lavorare, ma ebbe di nuovo un rifiuto. Noi crescevamo, il regime fece gli avanguardisti e il sabato dovevamo andare a fare il premilitare al Palazzo della GIL(Gioventù Italiana del Littorio). I discorsi di Mussolini aumentavano e così la propaganda contro l’Etiopia, contro gli Inglesi e contro i Francesi. Al Cesano, vicino al fiume, si costruì uno stabilimento, il linificio, dove si faceva la tela per i paracaduti. L’impresa che lo costruì era di Girolimini, Carbonari e Lucarini mio zio. Lo stabilimento fu costruito in tre mesi, giorno e notte, perché il regime aveva fretta. La Società delle Nazioni ci punì con le sanzioni, cominció l’autarchia. Dovevamo vivere con quello che avevamo, ma eravamo poveri e la miseria aumentava. Poi il lavoro terminó e i più ruffiani e “leccapiedi” entrarono a lavorare nel linificio, ma non era la mia indole né quella di mio padre. La primavera seguente l’impresa che aveva costruito il linificio prese i lavori delle ferrovie dello Stato, cosi all’età di 14-15 anni, con la bicicletta, dovevo andare a lavorare alla pag.6
stazione ferroviaria di Falconara o fino alla stazione di Palombina, vicino Ancona, oppure sino alla stazione di Torrette di Fano. Io ero sempre un tipo libero e ribelle, perció mia madre si raccomandava: “Stai calmo, vedi che tuo padre lavora saltuariamente e i soldi ci servono per mangiare.” Io disegnavo sempre, pitturavo, e come potevo andavo a ballare, ero sempre tra le ragazzette. Il calzolaio vicino di casa diceva sempre a mia madre: “Tuo figlio, se ha quattro soldi, li butta tutti nella carta e nei colori.” Io avevo un gran volontà di imparare, ma non si poteva. Mi ricordo che imparai da solo a quell’età a incidere il marmo per le lapidi del cimitero, allora mi capitava qualche lavoretto, andavo a verniciare le lettere sbiadite e qualcosina guadagnavo. Nella miseria rimediavo sempre qualche soldo per andare a ballare e divertirmi, se potevo non mi facevo mancare niente. Poi arrivarono le prime cartoline da militare, si preparava la guerra d’Africa contro l’Etiopia. Era il 1935: la popolazione del paese, ossia della parrocchia, era di circa 2500 abitanti. Chi era più grande di me diceva che si viveva in una dittatura, ma a me non sembrava, anche se c’era una certa rigidezza. Nella parrocchia si facevano delle recite, al Circolo si ballava sino al mattino alle sei. In paese, in piazza, alcune compagnie come il Carro di Tespi, chiamavano me e il mio amico Tito a fare delle piccole esibizioni artistiche, perché eravamo i più svelti. Quell’anno, il 1935, iniziò la guerra d’Africa e molti compaesani partirono. Io andavo sempre a nascondermi in uno sgabuzzino che c’era sulle scale di casa mia, per vedere le ragazze che lavoravano dalla ricamatrice Quinta Cimarelli quando andavano al gabinetto. Ce n’era una carina che mi piaceva. Ricordo che un giorno aspettai che uscisse sul pianerottolo e la baciai lungamente. Lei sembrava abbastanza soddisfatta. Quando ci incontravamo a ballare ballavamo spesso e volentieri. Ce n’era un’altra molto carina; ricordo che le scrissi una dichiarazione d’amore, ebbi come risposta queste parole: No, grazie. E lì fini. D’estate venne il mio più grande amico, Renato Lucchetti, che studiava in seminario. Venne in vacanza vestito da prete. Io andavo spesso a trovarlo a casa; lui era abbastanza riservato, ma io ci andavo volentieri perché la sorella più piccola era piuttosto carina. Poi la guerra in Africa finì. Ricordo il discorso del Duce che annunciava la fine della guerra. Disse: – L’Etiopia è conquistata, ora abbiamo un posto al sole e annunció la nascita dell’Impero e il re d’Italia Vittorio Emanuele imperatore d’Etiopia. Qualche soldato non tornò dalla guerra, cosi c’era chi rideva per il ritorno dei propri cari e chi piangeva per i propri cari morti per la grandezza della patria. Vidi le prime belle spose vestite di nero e i primi orfani, miei amici. Mi ricordo che una signora disse: “Ma adesso gli danno la pensione” e io le dissi seccamente: ma non hanno più il babbo ! Alle volte lavoravo, ma la cosa più brutta per me era l’umiliazione, dato il mio orgoglio, di cavare il cappello per chiedere il lavoro. Molti mi dicevano: Tu hai i parenti imprenditori! Ma siccome dovevo fare il ruffiano, molte volte arrivavo sulla porta del loro ufficio, poi neanche bussavo per non sentirmi rispondere che il lavoro non c’era. Per me era una grossa umiliazione. Quando tornavo a casa, mia madre mi chiedeva subito: “Hai trovato niente?” Al mio cenno di no, lei abbassava il capo e a volte la sentivo mormorare: “Come si fa per sfamare quattro figli?” Anche mio padre lavorava saltuariamente. Mia madre doveva spartire il pane, mi ricordo che allevavamo conigli e polli per mangiare qualche volta la carne. Allora molti andarono a lavorare in Africa, tra i quali mio zio Gino Cimarelli, marito della sorella di mia madre Ida che aveva due telai che tessevano la tela per i grossi negozi di Senigallia. Il marito dall’Africa le mandava dei soldi, perciò stavano meglio di noi, inoltre il suocero, certo Pietro, faceva il sagrestano e andava per la cerca dai contadini, quando per il grano quando per l’uva e cosi via. Mia zia Ida, quando poteva, di nascosto dei suoi suoceri dava a mia madre qualche chilo di pane, qualche chilo di farina. Poi mio padre conobbe un ingegnere di Terni che veniva d’estate al mare a Senigallia; questi gli disse che c’era del lavoro nella sua città, cosi mio padre con un altro paesano, certo Gresta Saladino, andò a lavorare a Terni. pag.7
Venne il 1936 e con esso la guerra di Spagna. Io, per indole, mi interessavo di tutto. Ricordo che all’osteria di un certo Pettinari Giovanni c’era sempre il giornale che io andavo a leggere e lui lo diceva sempre a mia madre, perché lei andava a fare la spesa all’osteria che faceva anche da negozio di generi alimentari. I o però andavo all’osteria anche per vedere la figlia di qualche anno più grande di me che si chiamava Ada ed era molto bella. Il tempo passava e io mi sentivo un ometto. Mio padre non c’era e la miseria aumentava. Mia madre, quando andava a fare la spesa, sentivo che diceva “Segna”. Quando mi manda i soldi mio marito, ti pago. Una volta Pettinari le disse: “Vedi un po’, se no qui il conto sale troppo”. Queste parole mi facevano male. Con la bicicletta di mio padre mi allenavo, pensando di fare il corridore per guadagnare. Venne il 1937 e alcuni amici più grandi, una domenica, mi portarono con il treno a vedere il porto di Ancona. C’erano allora le case di tolleranza, ma io avevo 16 anni e non potevo entrarci, perché ne occorrevano 18. Ricordo che, per non staccarmi dalla comitiva, corressi la carta di identità e scrissi 18. Quando entrai con i miei amici, la “ruffiana” mi guardò dicendomi. Tu non hai 18 anni e io franco risposi : “Come no? Non vedi come sono grosso?” Mi guardò e mi disse. “Passa un po’ Ma se mi viene un controllo mi fai passare dei guai.” E così passai. Fu la prima volta che vidi delle donne spogliate. Dissero: “Andiamo in camera”… ma una disse “Questo ancora è un ragazzino.” Per andare in camera ci volevano 50 lire. La sera, quando tornai a casa, mia madre brontolò: “Mi sai dire dove sei stato che non sei venuto a mangiare?” e io: “Sono stato in Ancona a vedere le navi nel porto: c’erano due navi da guerra.” “Chi c’era con te?” “Quelli più grandi” e lei: “Non so come farò con te. Sai che tuo padre non c’è e tu mi fai passare sempre dei dispiaceri.” Io crescevo e un giorno dissi a mia madre: “Io non ci vado più ad umiliarmi dai miei parenti a chiedere il lavoro, sembra di chiedere l’elemosina.” Allora andavo a scuola di musica, suonavo il clarino, correvo in bicicletta, avevo una gran voglia di fare, di sapere, ma mia madre mi ripeteva: “Non sei mai contento”. Un giorno dissi a mia madre: “Sai cosa faccio?” ” Adesso cosa vuoi fare?” “Scrivo a mio padre e vado a lavorare a Terni”. e lei “Cosi mi lasciate sola!” Mi guardó piangendo e mi disse: “Fai come ti pare, tanto anche se non voglio tu fai lo stesso come ti pare”. E cosi feci; presi carta e penna e scrissi a mio padre che rispose: “Fai un po’ tu” Poi scrissi ancora a mio padre dicendogli che il lunedi seguente avrei preso il treno per andare a Terni e lui mi disse a che ora sarei arrivato. Mia madre trovò i soldi in prestito per il viaggio dal calzolaio Diamantini Emilio e mi disse I primi soldi che guadagni mandali per restituirli a Emilio” e cosi feci. A Terni mio padre mi aspettava alla stazione; poiché ero cresciuto (lui era andato via che avevo 13 anni ed ora ne avevo 16) non mi riconosceva; fui io ad andargli incontro. Cosi misi piede sul suolo di Terni. Una settimana o due prima di andare a Terni venne inaugurata a Senigallia l’illuminazione dello Stadio e ci fu l’arrivo della tappa del giro ciclistico d’Italia. Per me fu quello il primo giorno da avanguardista era un’istituzione paramilitare che il regime aveva creato. Misero in fila noi giovani che ci tenevamo per mano per fare il cordone per tenere l’ordine, ma io, appassionato com’ero di ciclismo, soffrivo perché non potevo andare a vedere l’arrivo della tappa nello Stadio. Allora presi la mano del mio compagno che stava alla mia sinistra dicendogli: “Tenete voi, io vado al gabinetto” e invece andai dietro le mura dello Stadio, mi ci arrampicai e non so come entrai a vedere la volata finale che vinse Marabelli. Tornando a quando andai a Terni, al mio arrivo la città mi fece un brutto effetto: infatti si trova in una conca circondata da montagne. Dalle acciaierie usciva un fumo nero che mi sembrava nebbia. Abituato al mio paese, Roncitelli, che sorge su di una collina dalla quale si vede il mare ad est e l’Appennino ad ovest, a Terni mi sembrava di soffocare. Quando trovai mio padre ricordo che neanche gli diedi un bacio, ma lui aveva capito che non ero molto soddisfatto dell’ambiente, mi disse infatti: “Qui sono tutte montagne.” mi prese la valigia e ci avviammo verso la sua casa. Abitava in una piazzetta, piazza Clai, ma non ricordo il numero. Appena entrai rimasi male, mio padre se ne accorse e disse: ” Qui gli affitti sono cari.” Era una sola stanza a pianterreno, si scendeva con due gradini, c’erano un lavandino e due lettini. Mio padre mi aveva preparato il letto, una rudimentale sdraia. C’era un fornelletto per cucinare con il carbone perché allora non c’era il gas. pag.8
Mi aveva preparato qualcosa de mangiare: un piatto di minestra, due patate e un pezzetto di pane. Finito di mangiare, andammo a comprare una cartolina postale per mia madre, poi mi portò nella trattoria-osteria dove spesso andava a mangiare e mi presentó ai proprietari, due coniugi con una figlia pressappoco della mia etá, alta bionda, bella, con due begli occhi celesti. Si chiamava Orfea. Bevemmo e ci fermammo un po’. Io scrissi la cartolina rassicurando mia madre che i viaggio era andato bene. Tornammo poi a casa, tra quei vicoli mi sembrava di soffocare. Inbucai e andai a dormire. La notte mi agitavo e mio padre mi disse che c’era qualche cimice. lo non sapevo neanche che esistessero. Un bel momento accesi la luce e vidi quegli insetti camminare e sul pavimento degli animaletti, che noi in dialetto chiamiamo “fornarine”, che appena vedevano la luce scappavano via veloci a nascondersi tra le connessure dei vecchi mattoni del pavimento. Allora mio padre disse: Quando troveremo una casa migliore andremo via di qui Infine per la stanchezza mi addormentai. La mattina dopo mi svegliai quando mio padre, che faceva il muratore, andava al lavoro. Egli mi disse che se volevo guadagnare qualcosa finché non trovavo lavoro come muratore potevo andare alla stazione ferroviaria dove c’era una ditta che cercava personale per scaricare il carbon fossile e la lignite. Feci come mi aveva detto e alla stazione vidi degli operai che spalavano carbone. Chiesi al capo se occorreva nessun operaio e lui mi diede una giornata visto che ero giovane e abbastanza robusto, mi disse di prendere una pala e di salire sul vagone a spalare carbone, da li si caricava poi sul camion. Al giorno mangiai un panino. La sera mi pagarono e con quei pochi soldi mi avviai verso casa. Dopo poco arrivò mio padre che mi condusse ai bagni pubblici a fare una doccia perché con tutto quel carbone ero diventato tutto nero, poi mi disse: “Andiamo a mangiare” ma io replicai “Non andiamo a casa. Allora mi condusse in via Cavour dove c’era un grosso negozio di generi alimentari in cui spesso andava a fire la spesa. I proprietari erano tre fratelli: Riccardo, Domenico e Pietro. Il più piccolo aveva la mia etá Vivevano da soli, i loro genitori erano a Norcia dove possedevano dei terreni. Dopo il lavoro mio padre andava da loro a a fare dei lavoretti e nel retrobottega, una specie di cucina, preparava la cena per tutti. Li non mancava nulla, ma giá si cominciava a parlare del tesseramento del pane. Noi italiani eravamo amici della Germania di Hitler, ci furono le sanzioni, quando la Germani entrò in guerra con l’Inghilterra e la Francia, cosi ci fu l’autarchia, la tessera sul pane, sulla pasta e su altri viveri. Anch’io la sera andavo in quel negozio ad aiutarli, li si mangiava con abbondanza perché c’era ogni ben di Dio. Divenni loro amico e quando seppero che ero appassionato di ciclismo, dopo un mese mi comprarono una bicicletta da corsa, di marca Frejus mi sembrava di essere un signore. Dopo tre giorni che scaricavo il carbone alla stazione ferroviaria trovai lavoro come muratore, quando videro che ero abbastanza bravino mi presero come muratore di 2° La sera alle cinque ero libero e andavo ad allenarmi con la bicicletta, disegnavo sempre e quando andavo a visitare qualche chiesa mi incantavo a pardare i quadri. Ricordo che la prima impresa per cui lavorai si chiamava Persichetti, facevano dei fabbricati a porta S. Angelo. Io però pensavo sempre a casa, a mia madre, ai miei fratelli, ai miei amici più cari, tra cui Lucchetti Renato che studiava a Roma. Una domenica pomeriggio dissi a mio padre che andavo a Roma a trovare Renato e lui non mi disse niente, mi guardo, poi mi raccomando di non tormare tardi perché il lunedi avrei dovuto lavorare. Alle 13 presi il treno per Roma Avevo l’indirizzo di Renato, via degli Aranci ma non ricordo il numero. Quando mi vide rimase di stucco e mi disse: “E tu?” Ci siamo abbracciati, poi gli dissi. ” Sono venuto a trovarti” Restammo un po’ insieme, poi mi riaccompagnò alla stazione. Quando ero sul treno che mi portava aTemi ebbi un pensiero e chiesi al bigliettaio se portava in Ancona e lui mi rispose che era diretto. Mi passò per la testa di proseguire, avevo voglia di rivedere mia madre, ma poi a Terni scesi. La mattina dopo andai a lavorare con la bicicletta. La sera, dopo il lavoro, facevo 50-60 chilometri, andavo ala lago di Piediluco, a Sangemini. Una domenica arrivai a Foligno, poi a Perugia passando per Todi, fu in quella settimana che mi è saltato in testa di andare a Roncitelli in bicicletta a trovare mia madre. Erano passati circa due mesi da quando ero partito. Quando lo dissi a mio padre, lui, conoscendo il mio carattere, che se mi mettevo in testa una cosa non c’era niente da fare, non obbiettó nulla, cosi la pag.9
domenica mattina alle 5 presi la bicicletta, due panini e partii. Passai Spoleto, Foligno, Gualdo Tadino, Fabriano, Sassoferrato, arrivato ad Arcevia mi fermai a guardare il panorama. Le montagne erano finite e vidi lontano il mare. Mi sembrava di essere rinato, era il mio ambiente, con tutta quell’aria fresca. Mi buttai in discesa. Poi venne la pianura, quasi 40 chilometri che non finivano mai: Serra de’ Conti, Pongelli, Casine di Ostra. Guardavo sempre la colonnina dei chilometri. Bettolelle, Brugnetto, Cannella, gli ultimi tre chilometri da Cannella a Roncitelli non finivano mai, anche perché ero stanco: avevo fatto per la prima volta 200 chilometri in bicicletta. Arrivai al mio paese verso le 11,30 quando la gente andava alla messa. Videro una bicicletta da corsa, qualcuno disse: To’, un corridore ma i miei compagni mi riconobbero e dissero: E’ Pitin (era il mio soprannome). Arrivai a casa e mia madre, come mi vide, disse: “E tu?. Tu me le combini di tutti i colori, non cambi mai.” “Si riempì la casa di amici. Mio fratello aveva 12 anni, ma mi guardava stupito, guardava la bicicletta. Era una festa. Poi mi lavai, mangiai, mi riposai un po’, poi uscii con i miei amici. Dopo cena andai a letto presto e la mattina dopo alle 8 partii. Salutai il mio nonno materno che si chiamava Leopoldo e con il quale dormivo. Mi disse: “Se ti trovi male, torna a casa.” Partii senza salutare nessuno. Alle 14 circa arrivai a Terni, mi riposai e il martedi mattina andai a lavorare in bicicletta. Gli altri operai, quando mi videro, subito mi chiesero: “A marchigian, hai fatto festa ieri?” Non avevano troppa simpatia per me, gli operai che venivano da altre regioni mi sfottevano sempre, dicevano che era meglio un morto dentro casa che un marchigiano sulla porta di casa. Io ribattevo: Prendi confidenza coi cani, ma lascia stare i marchigiani. Però mi dovetti adeguare e mandar giù e questo per il mio carattere era un grave sacrificio. Mi feci però degli amici, tra i quali un sarto, che andavo a trovare nella sua bottega. Era siciliano e aveva per fidanzata una bella moretta napoletana, tra me e lei nacque una certa simpatia e ci fu qualche bacio, avrei potuto andare oltre, ma non volli perché mi sembrava una cosa amorale. Lei quasi si offese. Una sera, tornato a casa, vidi che niente era pronto, anche se mio padre era indaffarato a preparare la cena. A trovarmi in quella misera stanza, tra i panni sporchi, mi venne una grande tristezza, fu allora che dissi a mio padre, dopo circa tre mesi che ero li: “Senti, babbo, o portiamo su la famiglia o vado a casa; a me questa vita non va.” Mio padre mi guardó sorpreso, poi disse: “Vedi che le case non si trovano, poi ci vogliono i soldi, i soldi non bastano.” Ma io ribattei che così sarebbero bastati sempre meno, a dover mantenere due case. C’era la crisi, si parlava di intervento a fianco della Germania, i discorsi del Duce aumentavano, ma anche la miseria. Dissi a mio padre che se non si trovava casa i primi tempi ci saremmo arrangiati tutti, poi gli spiegai come avrei diviso la stanza. Rimase perplesso, ma io replicai che poi si sarebbe trovata una casa più grande. Lui ripetè che non c’erano i soldi per spedire le cose necessarie e per il viaggio: mio padre era un gran lavoratore, ma il coraggio di rischiare qualcosa, gli mancava. Io dissi: “Domani vedremo” La sera dopo andai ad aiutare Riccardo nel suo negozio, lui mi diede un chilo di pane e una scatoletta di Simmenthal. Allora gli parlai del mio progetto e feci il conto dei soldi che mi servivano. Lui mi guardó e mi chiese quanto mi servisse, io risposi che, a conti fatti, occorrevano circa 12.000 lire. Lui me le diede, cosi scrissi a mia madre. Lei non era propensa, perché era nata a Roncitelli e lì aveva le sue radici. La sua era una famiglia di imprenditori, ma poi disse che se veniva era solo per stare insieme a me. Cosi le mandai i soldi e lei spedì per ferrovia le cose necessarie. Arrivate le povere cose, scrissi a mia madre dicendo che quando volevano potevano partire. Dopo un po’ di giorni mi arrivò la sua lettera. Quando arrivarono andai a prenderli alla stazione, non essendo la casa troppo distante ci avviammo a piedi. Le mie sorelle, mio fratello e mia madre rimasero incuriositi dal movimento cittadino. A casa mio padre aveva preparato un po’ di brodo. Mia madre, vista la stanza, disse: “Tutto qui?!” “Certo non è bello” replicai ma l’importante è che siamo tutti insieme. Poi cercheremo qualcosa di meglio con l’aiuto di Dio. Cosi la vita proseguì tra gli stenti. Mia madre andava a fare qualche ora di servizi nelle case, le mie sorelle lavoravano come sarte, confezionavano le divise militari. I viveri erano tesserati e mia madre, per sfamare tutti, doveva ricorrere ala “mercato nero”. Le mie sorelle diventavano signorine pag.10
e un po’ ambiziosine, ma sempre nei limiti delle nostre possibilità. Poi mia sorella Laura andò a lavorare da un sarto, un certo Claudio, di cui ero amico. A volte andavo a trovario in sartoria dove c’erano 4 lavoranti, di cui due belline. Un giorno, salendo le scale, incontrai una di loro, non ricordo come si chiamava, e senza mezzi termini le diedi la mano per salutarla, ma la tirai a me e la baciai sulla bocca. Rimase sorpresa, poi si svincolo da me e finì così, invece con un’altra nacque una certa simpatia, ma dopo un po’ troncai perché non avevo nessuna intenzione di fare una cosa seria, dovevo infatti lavorare per provvedere alle necessità della famiglia. Infatti per me la famiglia era ed è sacrosanta e inviolabile. Frattanto continuavo a visitare chiese. Una mattina capitai in una di queste dove la messa stava per finire. Terminata la messa mi si avvicinò il fraticello che l’aveva celebrata, piccolo, ancora giovane, con barba e capelli neri. Si stava ancora spogliando dei paramenti sacri, e mi disse che voleva parlarmi. Io lo segui in sagrestia e lui, guardandomi negli occhi, mi disse: Lei non è cristiano. Io ribattei stupito “Perché? Che cosa glielo fa credere?” e lui ribatté: “Osservando il modo con cui è entrato in chiesa”. “Ma io sono entrato per guardare le opere d’arte che sono in questa chiesa” dissi “Le chiese vado a visitarle quando posso perché sono appassionato di pittura, ma io sono cristiano convinto.” Il frate si mise a ridere e mi diede la mano, poi ci salutammo cordialmente. Qualche volta andai a trovarlo, ma dopo un po’ non lo vidi più. Capitai in chiesa in seguito e chiesi sue notizie ad un altro frate che si chiamava padre Giuseppe, così venni a sapere che era stato trasferito in Brasile perché era un missionario. Io ribattei “Perché?” Allora lui mi spiegò che in Brasile si era ammalato e dopo poco tempo era morto. Io rimasi in silenzio, poi me ne andai. Quando andai a Terni, in quei tre mesi in cui mio padre ed io restammo soli, andavamo a mangiare a mezzogiorno in una mensa comunale, ma io, individualista com’ero e sono, non potevo sopportare le ammucchiate, non mi andava di mangiare quella sbobba. Allora dissi a mio padre che avrei mangiato sul cantiere un panino con la mortadella, seduto sopra un mucchio di mattoni. Uscito dalla chiesa, mi avviai al lavoro e strada facendo vidi un cartello appeso ad un portone. “Scuola serale di disegno” La sera, tornando dal lavoro, entrai e trovai dei giovani con un anziano professore di circa 75 anni, mi pare che si chiamasse Armeni, che mi chiese che cosa desiderassi. Io franco risposi che mi sarebbe piaciuto frequentare quella scuola. Lui mi guardò, poi mi chiese quanti anni avevo, poi da dove venissi; “Sei marchigiano” disse “Abiti vicino al mare?” lo risposi: “A sette chilometri, ma ora sono qui per lavoro.” Lui credeva che lavorassi nelle acciaierie, ma io gli dissi che facevo il muratore di seconda e che avevo iniziato a 13 anni e che potevo cominciare anche il giorno stesso. Lui disse che mi avrebbe inserito per il disegno geometrico dopo. Tornando a casa passai nel negozio di Riccardo dove c’era mio padre e gli riferii della scuola. Riccardo disse che Armeni era un bravo professore e un bravo pittore. Aggiunse che aveva 75 anni e, siccome abitava in una villa a Piediluco in riva al lago, quasi tutte le mattine faceva in bicicletta la strada, ben 18 chilometri, con 7 chilometri di salita. Quando andavo a lavorare passavo sempre davanti ad un laboratorio di marmo, dove vedevo anche delle statue, tra cui una grossa madonna in cemento. Un giorno mi fermai sul cancello a guardare incuriosito e una signora di circa 30-32 anni mi invitò ad entrare. Mi fermai ad osservare altri lavori, tra cui un busto di marmo. Passò la donna di prima con una gallina in mano e le chiesi se lo scultore fosse suo marito, ma lei rispose che era la donna di servizio, poi mi spiegò che la madonna che avevo visto era di Santa Maria degli Angeli di Assisi, mentre il busto era del corridore di automobili Mario Umberto Borzacchini, morto in un incidente durante una gara qualche anno prima. Il busto era destinato alla sua tomba, perché il corridore era di Terni. Allora io dissi che mi ricordavo di averlo visto correre al circuito di Senigallia. Seppi poi che lo scultore si chiamava Guglielmo Colasanti. Quando salutai la donna, quella mi disse che, visto che ero tanto interessato ai lavori di marmo, che potevo ripassare dopo il lavoro, dopo che avevano smesso anche gli operai. Mi avrebbe fatto vedere lo scantinato dove c’erano i modelli di gesso delle statue che lo scultore aveva eseguito. Io la ringraziai e lei aggiunse che la domenica pomeriggio i proprietari andavano sempre in giro, lei era sola e avrebbe avuto più tempo per farmi visitare il laboratorio. La domenica successiva, al mattino, andai a Messa, mangiai, poi uscii, mi fermai in una casa di tolleranza dove si mangiava bene oltre a fare all’amore, poi mi avviai verso il laboratorio dello pag.11
scultore. La donna mi vide dalla finestra e venne ad aprire il cancello invitandomi ad entrare. Mi dava del tu perché a Terni fanno tutti cosi. Dapprima mi fece visitare lo studio dove lo scultore faceva con la creta i primi modelli che poi ricopiava con il gesso e in marmo. C’erano un sacco di disegni e di bozzetti. Io, appassionato com’ero, rimasi sbalordito e incuriosito. Poi mi condusse nello scantinato, che era molto grande, dove c’erano tantissimi modelli in gesso delle statue eseguite e la donna mi spiegò che alcuni lavori erano stati fatti per le chiese ed altri per i cimiteri. Poi mi condusse in un capannone dove si eseguivano le statue: c’erano molti lavori da ultimare. Notando il mio interessamento mi chiese perché non avessi studiato. E io a testa china le dissi che era una storia troppo lunga da raccontare, poi aggiunsi che frequentavo la scuola serale del professor Armeni. Lei disse che lo conosceva, che era amico dello scultore che ogni tanto si recava a fargli visita. Poiché parlando mi aveva detto che era “signorina” e non “signora” come io l’avevo chiamata, le chiesi perché non si fosse sposata e lei mi rispose a testa bassa che anche quella era una storia troppo lunga da raccontare. Restammo un po’ in silenzio, poi lo la salutai ringraziandola per tutto ciò che mi aveva fatto vedere e la baciai su una guancia, lei mi guardò, poi mi strinse a sé e mi bació sulla bocca. Restammo un po’ in silenzio, poi la salutai di nuovo e me ne andai a casa. Era ora di cena. Aspettammo che tornasse mio padre e poco dopo tornò anche mio fratello che era stato a giocare a pallone alla chiesa di S. Francesco, tutto sudato, per cui mia madre gli brontolò . Mettemmo sul letto la tavola che serviva a mia madre per fare le tagliatelle e mangiammo quel poco che avevamo. Poi mio padre disse che il giorno dopo sarebbe andato a parlare con un amico per una casa vicino alla chiesa di S. Lorenzo che aveva due camere, la cucina ed un gabinetto. Mia madre disse Speriamo che l’affitto non sia troppo alto. La sera mio padre tornò più tardi dal lavoro e non fece in tempo ad entrare che tutti in coro gli chiesero: “Com’è la casa?” Lui rispose che poteva andar bene, ma mia madre domandò subito dell’affitto. Saputa la cifra, disse che potevamo farcela e io, che cercavo sempre di incoraggiarla, dissi “Ci arrangeremo, tanto qui non si può più stare.” Mio padre poi spiegò dove stava di preciso, disse che sarebbe stata libera per la fine del mese e che la domenica prossima saremmo potuti andare tutti a vederla. Cosi facemmo. Finita la messa nella chiesetta di S. Lorenzo, visitamuno la casa; anche la cucina era abbastanza ampia e io e le mie sorelle facemmo già dei progetti. Poiché occorreva pagare un mese anticipato, io dissi che il sabato avrei preso la paga e con quella si sarebbe potuto pagare l’anticipo. Mia madre era un po’ preoccupata, ma io osservai che nella casa vecchia non si poteva restare, le mie sorelle diventavano signorine. Dissi a mia madre Non vedere tutto nero! Toccava sempre a me prendere le decisioni. Trovai una carretta a mano e con quella, dopo aver imbiancato la nuova casa, portammo le poche cose che avevamo e andammo ad abitare dietro la chiesa di S. Lorenzo. Ci sembrava di essere dei signori, stavamo molto meglio così e siccome mia madre era sarta anche le mie sorelle avevano preso dei lavori dal governo per confezionare divise militari. Sembrava che fossimo un popolo forte la Germania era entrata in guerra ed otteneva dei grandi successi, i discorsi del Duce aumentavano e così pure le assemblee e i cortei. Mia madre aveva sempre la piccola macchina da cucire a mano che le aveva regalato suo padre Lucarini Leopoldo, nella quale avevo trovato nascoste le forbici in quel lontano 1929, con cui mi ero rovinato l’occhio destro. Una sera passai in un negozio dove vendevano macchine da cucire a pedale e chiesi quanto costavano. Al sentire la cifra rimasi un po’ pensoso, ma il proprietario del negozio mi disse che si poteva pagare a rate, chiese dove lavoravo e aggiunse che al massimo poteva fare 24 rate. Quella sera avevo preso la busta paga, cosi decisi per l’acquisto. Firmai delle carte e seppi che ad ogni fine mese dovevo andare a pagare alla Banca popolare di Terni. Promise di consegnaria la sera stessa. Arrivato a casa, dissi a mia madre che quella sera avremmo avuto delle novità, senza però aggiungere altro. Dopo mazz’ora bussarono alla porta e un ragazzo con una bicicletta a triciclo, simile a quella dei fornai, arrivò con la macchina da cucire. Mia madre e le mie sorelle rimasero stupefatte. Io spiegai che avremmo pagato a rate, ma mia madre era preoccupata e chiese se mio padre ne sapeva nulla. Io replicai che, se ci sono tanti galli a cantare, non si fa mai giorno. Le mie sorelle invece non furono dispiaciute e la misero subito in funzione, dissero che con pag.12
quella si poteva fare più lavoro e così si poteva pagare le rate. Quando mio padre tornò, mi guardò a lungo scuotendo la testa. Terminata la cena andai a scuola di disegno. Il professor Armeni mi aveva preso in simpatia perché ero abbastanza bravo, si rammaricava che non fossi potuto andare a scuola. Terminata la lezione, mi fermai una mezz’oretta e gli dissi che ero andato a visitare lo studio dello scultore Colasanti. Egli disse che era suo amico; se avessi voluto andare a lavorarci avrebbe potuto parlargli lui. Ci demmo appuntamento per il sabato successivo, in cui non si lavorava. Arrivai allo studio di Colasanti, un uomo alto sulla cinquantina ci introdusse dal professore. Rimasi stupito dai disegni e dai modelli in creta che c’erano nella stanza. Lo scultore, un uomo basso e un po’ tracagnotto con capelli biondi e il viso tondo pieno di lentiggini, indossava un camiciotto. Il professore e lo scultore si strinsero la mano e parlarono a lungo mentre io osservavo tutt’intorno.Ero talmente preso che non sentivo cosa si dicevano. Poi il signor Guglielmo mi chiamò e mi disse che potevo lavorare da lui quando volevo. Così diedi gli otto giorni alla ditta dove lavoravo e dopo una settimana mi presentai dallo scultore. Seppi che c’erano 24 operai tra marmisti e cementisti. Il fratello dello scultore, Aristide, che era capo operaio, mi condusse nel capannone dove segavano i blocchi di marmo con dei telai muniti di lame; quando arrivò il proprietario disse che poi mi doveva mettere alla fresa. Quel lavoro mi piaceva moltissimo, anche perché ero sempre a contatto con sculture e disegni. Dopo un mese che lavoravo a segare i blocchi di marmo nei telai, visto che ero volonteroso e imparavo con facilità mi misero alla fresa. Ce ne erano due di frese. Una grande alla quale lavorava uno più grande di me, di cui non ricordo il nome. Noi lo chiamavamo Pesaro perché appunto era di Pesaro e che divenne mio amico. L’altra fresa era piccola per i lavori delicati che affidarono a me. Dopo poco , visto che ero abbastanza bravo, mi diedero dei disegni da sviluppare e da tagliare dei pezzi da mettere in opera sia nelle chiese che nei cimiteri. Divenni così oggetto di invidia tra gli operai che notavano come, ultimo arrivato, già comandavo. lo ribattevo che al mio paese incidevo le lettere sulle lapidi dei cimiteri. Il mio unico amico era un cementista di Acquaviva delle fonti, Francesco Carella. Incontravo spesso la donna di servizio che mi aveva fatto visitare lo studio dello scultore, perché portava da mangiare ai polli che teneva in un recinto vicino al capannone e passando mi sorrideva sempre. Un giorno fermai la macchina e mi diressi verso lo spiazzale come se dovessi cercare delle lastre di marmo, entrai nel recinto e ci abbracciammo. Cominció così la tresca amorosa. Nel laboratorio lavoravano due ragazze circa della mia età. Sesta e Italia, che se ne accorsero e sembrarono un po’ gelose. Un giorno io e la più grande ci sbaciucchiammo, dato il mio carattere e la mia indole, tanto più che da giovane non ero un Valentino ma neanche tanto da buttare. Nacque una certa simpatia, ma quando lei intuì che non avevo intenzioni serie, anche perché ero attaccato alla famiglia e dovevo lavorare per mandare avanti la baracca. Troncammo tutto. Poi lei si fidanzó con un altro giovane che lavorava nel laboratorio. Dopo un po’ di mesi un lunedì mattina non venne a lavorare e il giorno dopo si venne a sapere che si era suicidata annegando in un canale. Rimanemmo tutti malissimo Il motivo non si seppe mai Nel reparto dei telai, dove si segavano i blocchi, lavoravamo in due turni: 12 ore di giorno e 12 ore di notte. Una notte il ragazzo addetto a dare la pece alle cinghie di trasmissione la diede a rovescio così la cinta gli tirò dentro il braccio, lo sollevò e lo sbatté per terra. Quando al mattino arrivò l’altro a dargli il cambio, lo chiamò e non ricevendo risposta fece un giro, lo trovò in terra vicino alla puleggia grande, credette che dormisse, ma non ricevette risposta, allora chiamò il proprietario e constatarono che il ragazzo era morto. Quel giorno non lavorammo e neppure quello seguente per i funerali. Io continuavo ad allenarmi in bicicletta. Un giorno il mio amico Riccardo mi informò che ci sarebbe stata una corsa per dilettanti ad Amelia, una cittadina a 50 chilometri da Terni. La domenica seguente ci andai, ma per arrivare, dovetti fare 50 chilometri. Partimmo alle 14, la corsa era di circa 80 chilometri. Alla prima salita resistetti, ma alla seconda si formarono tre gruppetti, io rimasi nel secondo. Le strade non erano asfaltate, c’era la ghiaia, quella macinata di montagna che tagliava le gomme se non si era prudenti. Mi gettai in discesa spericolato come sempre, pronto al rischio, ma dopo un po’ forai una gomma, la cambiai e mi gettai di nuovο pag.13
all’inseguimento; ne raggiunsi molti. Poi forai un’altra gomma e la cambiai. Di tubolari di scorta ne avevo due, così, quando mancavano 6-7 chilometri e forai di nuovo, rimasi a piedi. Ero solo, lontano da casa una quarantina di chilometri; tutti andavano per i fatti loro, sia le macchine che le moto. Pensai di togliere i lacci delle scarpette, di stringere dove c’era il buco del tubolare; levai il freno anteriore per far passare la legatura e mi avviai verso casa, ma dopo 6 o 7 chilometri dovetti fermarmi a cambiare la gomma. Così, passo dopo passo, arrivai a casa tutto sporco, con la maglia rotta. Mia madre mi guardò dicendomi “Domani devi andare a lavorare” Mio padre osservò che non era uno sport per me, se non ero con un gruppo sportivo che mi copriva le spese. Inoltre avevo troppi lavori e lavoretti in giro. Anch’io mi accorsi che per allenarmi non andavo più a ballare, cosa che a me piaceva molto anche perché mi piacevano le belle ragazze. Di volontà ne avevo tanta, mi buttavo in ogni cosa che facevo a corpo morto sia perché a casa c’era la miseria, sia perché voleνo emergere a tutti i costi. La domenica seguente andai ad un’altra corsa per dilettanti vicino a Terni, a Piediluco, ci misi tutto l’impegno; scappammo in quattro sulla salita delle Marmore, arrivammo in volata, io uscii secondo. Mi guardai intorno, quasi tutti avevano qualcuno che lo aiutava. Ero demoralizzato, ma non avvilito. Ritirai quel piccolo premio, qualche spicciolo e una medaglia, tirai fuori dalla borsa l’asciugamano e me lo misi sulle spalle perché ero tutto bagnato e solo mi avviai verso casa. Una volta arrivato, mi lavai con l’acqua calda che mia madre mi aveva preparato, poi mi buttai sul letto che era una misera branda e verso sera mia madre mi chiamò per cena. Poi mi cambiai ed uscii, mia madre disse: “Non sei stanco?Domani devi andare a lavorare” Vagai pensoso per la città; su di un portone vidi un cartello su cui c’era scritto che cercavano elementi adatti per una filodrammatica e l’orario per presentarsi. Poi entrai in una casa di tolleranza, allora c’era di bello che non sentivo mai la stanchezza, quindi andai al cinema e verso le 23.30 mi avviai verso casa. In un vicoletto mi si avvicinó uno alto, poco più grande di me che mi disse: “Oh che bel maschione!” lo lì per lì rimasi sorpreso, poi pensai: Questo è un pederasta lo guardai e, deciso come sempre, gli mostrai i pugno chiuso e gli dissi. “Se non vai via, ti rompo il muso” Lui rispose: “Come sei volgare!” Ed io: “Cammina per i fatti tuoi” e mi avviai verso casa. I miei erano tutti a letto e io cercai di non far rumore per non svegliare nessuno, ma un piccolo colpo di tosse era mia madre, lei non dormiva, era sempre vigile su tutti. Ora che ero grande mi accorgevo di molte cose che riguardavano mia madre: nella sua semplicità e nella sua ingenuità era una brava madre di famiglia, senza un lamento, senza tirarsi indietro di fronte a qualsiasi sacrificio, anche se si trattava di rinunciare a mangiare per lasciarlo a noi. Una sera, tornato dal lavoro, mia madre mi disse che c’era posta per me.Era la cartolina per andare a fare la visita militare, dovevo presentarmi al distretto di Orvieto. Quando mio padre tornò dal lavoro, gli mostrai la cartolina e lui disse Non passerà molto che anche l’Italia entrerà in guerra. Poi disse a mia sorella Laura che Riccardo, avendo aperto un negozio (il terzo), aveva chiesto se voleva andare a fare la commessa. Dopo qualche indecisione decise di accettare. Una sera uscii dopo cena e andai in piazza del Comune in un bar dove andavo spesso a vedere e a giocare a biliardo, sentii una squadra di stuccatori romani che lavorava fuori Terni a costruire uno stabilimento, i quali cercavano degli operai per fare gli intonaci. Siccome la paga era migliore di quella da marmista mi feci avanti col caposquadra, desto “Bacaion” perché brontolava spesso, lui mi guardò, poi mi chiese se ero capace di fare quel lavoro.Io sempre volenteroso e intraprendente, risposi di si, allora l’altro mi diede l’indirizzo del posto dove dovevo presentarmi. Con rammarico avvisai i miei genitori che rimasero zitti solo perché prendevo più soldi. Come avevo dovuto rinunciare ad andare a scuola per motivi economici, così dovetti rinunciare a fare il marmista, un lavoro che mi piaceva tanto. Avvertii lo scultore Colasanti che mi disse: “Mi dispiace, se non ti trovi bene, puoi sempre tornare.” Andai a salutare gli operai, poi la donna di servizio con qualche abbraccio profondo e qualcosa di più. Lei disse che la domenica era sempre sola, perciò, se non avevo niente di meglio da fare, potevo andare a trovarla.Col nuovo lavoro guadagnavo un po’ di più e così mia sorella Laura. Nell’imminenza della pag.14
guerra cercavano personale alle poste, così anche mia sorella Armanda andò a lavorare. Potevamo permetterci di vestire e di mangiare un po’ meglio, anche se giá c’era il mercato nero e la tessera per le sanzioni a cui era soggetta l’Italia. Mio fratello Cafiero andava ancora a scuola. La domenica pomeriggio accompagnavo le mie sorelle a ballare; io e Armanda ballavamo bene, un po’ meno Laura. Dove andavamo ci guardavano tutti e ci ammiravano, giovani, non male e pieni di vita. Quando andai alla visita militare, per via dell’occhio mi mandarono all’ospedale militare del Celio a Roma. Ricordo che eravamo quattro o cinque, arrivammo di notte, ci buttammo sul letto e la mattina dopo alle otto ci chiamarono. Ci fecero spogliare e ci fecero la prima visita, poi ci diedero degli abiti da ricoverati, potei poi constatare che l’ospedale era molto grande. Riccardo mi aveva dato l’indirizzo di suo fratello Domenico che era militare all’ufficio dispensa e subito capii che era un imboscato. Mi regalò due stecche di cioccolato. Sulle brande erano sdraiati militari che provenivano dalle zone di guerra, arrivò un milite fascista non dell’esercito tutto infreddolito, tremante per la febbre altissima; una suora gli ordinò di buttarsi su di una branda e io, sempre generoso, lo coprii alla meglio con quello che trovai lì attorno. Lui mi guardó e mi ringrazió. Uno che aspettava come me di fare la visita, mi disse. Qui ognuno pensa per sé. “Io lo guardai e pensai che doveva essere dura la vita militare. Ripensai a mio padre, agli otto anni di guerra che aveva fatto in Libia e poi alla prima guerra mondiale. Incominciai a rendermi conto di dove mi trovavo e per il mio carattere non sapevo adeguarmi. Un militare più anziano che era ferito mi comprese e mi disse che mi dovevo abituare. Poi ci mettemmo in fila per la visita e io mi accorsi che mi mancava la berretta bianca di lana per la notte che mi avevano dato con gli altri indumenti; siccome, se mancava qualcosa, la facevano pagare, chiesi quanto avrei pagato e saputo che avrei dovuto sborsare 5000 lire, ripensando alle parole del militare che mi aveva detto di arrangiarmi, presi la cuffia che sporgeva dal sacchetto di uno che era davanti a me. Verso le 10,30 arrivò il mio turno. Erano 4 o 5 tra medici e infermieri, ridevano, scherzavano, la prendevano comoda, mentre fuori la gente soffriva. Rimasi molto male, perché nei discorsi del regime si invitava a servire la patria con amore e disciplina. Mi visitarono con comodo, discussero tra loro scuotendo la testa, poi mi dissero che potevo andare. Ripresi il mio sacchetto e poiché era l’ora del rancio mi avvicinai alla fila dei futuri militari a cui 4 suore distribuivano il pranzo. Ripensando alla mensa a cui mi aveva portato mio padre i primi giorni che ero andato a Terni, rinunciai alla minestra, ma poi vedendo che distribuivano mezzo sfilatino con un bel pezzo di carne lessa, mi misi in fila. Dopo un po’ che ero appoggiato alla porta, una suora mi disse in dialetto romanesco “Tu l’hai già avuto” lo tacqui, ma dopo un po’ ripetè la stessa frase. Alla terza volta quasi mi arrabbiai, ma uno che faceva la fila accanto a me mi invitò a stare calmo, sennò non avrei ottenuto niente. Dopo un po’ intervenne l’altra suora, una morettina bellina, bassa che prese le mie difese, così alla fine ricevetti il pane con la carne e una mela. Io guardai la suora per ringraziarla, ma quella si mise a ridere. Andai a sedermi sulla branda per mangiare; la carne era dura, ma avevo fame per cui la mangiai lo stesso, poi mi sdraiai in attesa di quello che mi avrebbero fatto, sempre con il sacchetto vicino per paura che mi rubassero qualcosa. Verso le 14 mi chiamarono con l’altoparlante. Mezzo impaurito entrai per la nuova visita. C’era un infermiere alto e grosso, con capelli e occhi neri, che passeggiava per la stanza con fare nervoso, ma poi seppi che era il colonnello medico; ad un tratto si fermò, mi fissò puntandomi contro l’indice e mi gridò: “Voi ci vedete!” Io zitto. Fece altri passi, poi ripetè: “Voi ci vedete.” Io rimasi zitto per quanto ero impaurito. Alla terza volta presi coraggio e dissi: “Senta, signor colonnello, se devo fare il soldato lo farò come gli altri, ma non mi dica che ci vedo perché non è vero.” Fece altri passi nervosi dicendo: “Tutti così, quando si tratta di servire la Patria” poi mi fece sedere su di una seggiola, mi visitò l’occhio destro dettando delle frasi che un infermiere scriveva. Mi visitò per mezz’ora, poi guardò gli incartamenti delle altre visite che avevo fatto al mattino. Con l’occhio buono cercavo di leggere qualcosa, ma erano tutti segni medici, io non ci capivo niente. Dopo circa mezzora mi disse: “Guarda qua, 1,75 di altezza, 92 di petto” e scosse la testa. In realtà ero un giovane non tutto male. Poi mi disse che potevo andare. Tornai a sdraiarmi sulla mia branda, da cui fissavo il soffitto pensando che avrei dovuto proprio fare il militare, mi passavano per la testa le belle ragazzinate al mio paese, gli appuntamenti con le pag.15
ragazze, i balli che mi piacevano tanto, ricordai quando passavo delle mezze giornate dal calzolaio Federiconi e di Emilio Diamantini di cui ero stato allievo, di Ado Federiconi, un vecchio socialista che mi raccontava come era la politica prima del fascismo, i partiti che c’erano e di Pietro Nenni che una volta era stato a trovarlo nella sua bottega, poi anche lui era diventato fascista. Quando ero nella sua bottega Emilio Diamantini mi raccontava le sue avventure amorose di quando era giovane, delle barzellette e mi diceva: “Vedi Ado era socialista e il fratello Aroldo comunista, anche il barbiere Bacchi Ginesio era socialista, quando Mussolini era direttore del giornale “L’Avanti !”, ora invece sono diventati tutti fascisti.” Quando avevo deciso di andare a Terni, Emilio mi aveva prestato dei soldi dicendomi: “Tu va’ a Terni e datti da fare, ma sappi che non dimenticherai mai le ore passate qui sdraiato su quel divano a dire cavolate e soprattutto non dimenticherai mai il tuo paese – In quell’ora che rimasi sdraiato sulla branda dell’ospedale militare tante cose mi passarono per la mente, brutte e belle, ma soprattutto pensavo alla mia famiglia, specialmente a mia madre sempre pronta a servirmi, mi preoccupavo anche per la mia paga che sarebbe mancata in casa e per la disciplina militare per la quale non ero adatto. Con qualche lacrima diedi un profondo sospiro, un ragazzo che era nella branda vicina alla mia e che mi aveva capito al volo disse: “”Ti ci abituerai”. Dopo un po’ mi chiamò l’attendente. Io pensai : “Adesso cosa vogliono?” Entrai nella stanza delle visite, c’era rimasto solo lui. Mi invitó a sedere e mi chiese se avevo una sigaretta. Le sigarette erano razionate. Ricordo che avevo un pacchetto pieno di 10 sigarette. Lui mi mise davanti un foglio bianco lo dissi Ma qui non c’è scritto niente! e lui: Firma, ce lo scriveranno dopo che sei riformato lo lo guardai Me lo dici perché vuoi le sigarette oppure Lui ripete – Firma, firma, poi vedrai. lo gli diedi tutto il pacchetto e lui mi guardó ringraziandomi. Poi mi disse che potevo andare e io gli diedi la mano. Me ne andai senza cercare nessuno. Dopo un mese ricevetti una lettera in cui c’era scritto che ero stato riformato e che potevo richiedere il congedo al distretto di Ancona. Io non cercai nessuno, mia madre disse che mio padre aveva fatto il soldato anche per me. La mattina dopo andai a lavorare e il capo mi chiese come era andata. lo ancora ero incredulo perché la guerra era iniziata, perciò risposi che non sapevo nulla. Si cominció a sentire la sirena dell’allarme e molti dicevano che erano delle prove per abituare la popolazione, io leggevo i giornali e vedevo che i bombardamenti aerei si avvicinavano sempre di più. La miseria aumentava mentre i divertimenti diminuivano, i soldi non bastavano per arrivare alla fine del mese. Cosi si tirò avanti fino all’estate del 1943. La mattina andavo a lavorare; era in costruzione uno stabilimento per fabbricare gomma sintetica e attorno ad esso si costruivano villette per gli impiegati. Quella mattina mi mandarono a fare del finto travertino sul cornicione, mi ero arrabbiato con il manovale, un certo Umberto di Perugia che era pieno di pidocchi e gli avevo gridato di starmi lontano. Il capo squadra, conoscendo il mio carattere impulsivo, mi raccomando di stare calmo Alle 10 circa suono l’allarme, si senti un rumore cupo di serei, io feci un salto dall’impalcatura sopra un mucchio di sabbia e non so come non mi ruppi una gamba. Tutti scappammo. Le quattro batterie antiaeree cominciarono a sparare, mentre scappavamo in aperta campagna dissi Si, fanno le prove! Mi sdraiai sotto un albero come se potessero proteggere le foglie e i rami dalle bombe. Il rumore degli aerei era sempre più assordante, si cominciò a sentire il fischio dei proiettili che arrivavano, ma vicino a noi non ne cadde neanche uno L’allarme non cessava, noi restammo fermi, impauriti. Uno disse: Vedrai che ci sarà un’altra ondata e dopo un quarto d’ora circa altri aerei, altri fischi delle bombe dagli aerei. Dopo un po’ tutto cesso, ma non suono la fine dell’allarme. Arrivó mezzogiorno, eravamo tutti preoccupati, arrivavano voci da parte di quelli che scappavano dalla città che era stato colpito il centro ma non gli stabilimenti. Non facevano entrare nessuno in città. Un anziano che aveva partecipato alla guerra del 1915-18 disse che probabilmente non facevano entrare per portare via i morti. Il mio pensiero era per i miei famigliari. Verso le cinque del pomeriggio ci incamminammo verso la città. Pensavo Sarò rimasto solo? A quell’ora mio padre lavorava alla fabbrica di armi, mia madre andava a fare la spesa, mio fratello era a scuola, mia sorella Armanda faceva il servizio civile distribuendo la posta e mia sorella Laura era commessa nel negozio di Riccardo Come entrai in città, vidi case diroccate, cavalli morti, un pianto. Non vidi nessuna persona. Come mi avvicinavo a casa mi sentivo era sempre peggio; ripetei: “Sono rimasto solo.” pag. 16
La facciata del fabbricato che dava sulla piazzetta era crollata, passai sopra un mucchio di calcinacci. Quando vidi mia sorella Armanda ci abbracciammo e le chiesi subito di mia madre Mi disse che era tornata dalla spesa quando era successo il bombardamento ma lo spostamento d’aria l’aveva buttata a terra e non si sentiva bene, sputava polvere. Dopo un po’ arrivò mia sorella Laura piangente, lei era sempre la più paurosa, cercai di farle coraggio, ma io avevo più paura di lei. I minuti passavano lenti come se fossero ore, ad un tratto vidi spuntare mio fratello, ringraziai il Signore. Mancava mio padre. Alle 7 del pomeriggio, era ancora giorno perché era estate, dissi a mia sorella Armanda che bisognava andare a cercare mio padre alla fabbrica di armi. Mentre stavamo parlando, con la sua solita lentezza arrivò mio padre, anche lui rimase meravigliato che eravamo tutti vivi. Gli chiesi come mai era arrivato cosi tardi visto che non gli era successo niente e lui mi rispose che in guerra ognuno si ferma ad aiutare ad estrarre i morti e a soccorrere i feriti. Pensai subito agli otto anni di guerra che aveva fatto. La nostra casa era rimasta in piedi, ma la parte dove abitava il proprietario, un certo Piccioni, era crollata. Presi la bicicletta. Piano piano salimmo in casa e radunammo le cose più necessarie, arrotolai il materasso di mia madre sulla bicicletta e, ognuno con un fagotto sulla testa, ci avviammo a Maratta alta, dietro il cimitero, dove abitava un contadino nostro compaesano, che si chiamava Pesaresi. Era distante 5 chilometri. Quando arrivammo, stanchi per come eravamo carichi, senza aver mangiato niente, con mia madre che non stava bene e pochi soldi, il contadino ci diede una fila di pane e un sacchettino di patate. Mio padre radunò un po’ di legna secca e su di una pentola mettemmo a cuocere le patate. Seduti vicino ad un pagliaio cominciammo a mangiare. Mia madre mi disse. Non levi la buccia? e io risposi Ho fame, mangio anche la buccia – Poi venne sera, si fece buio e con quei quattro stracci che avevamo ci mettemmo a dormire vicino ad un pagliaio. La notte era limpida, non c’era la luna, io guardavo le stelle e pensai ai miei sogni. Mi piaceva studiare pittura e avevo dovuto rinunciare, mi piaceva di correre in bicicletta e avevo dovuto rinunciare, mi piaceva di fare il marmista e quando cominciavo a scolpire nel reparto dove si facevano statue avevo dovuto rinunciare, mi piaceva fare teatro, riuscivo abbastanza bene e avevo dovuto rinunciare. Quella notte piansi. Ero però molto vivace e intraprendente, reagivo subito, più le cose andavano male e più grinta trovavo. Per ora l’unica soluzione era fare il muratore poiché ero costretto dalla necessità a portare a casa un pezzo di pane. Dissi tra me: Pazienza, sarà quello che Dio vuole. Il mio pensiero andava sempre a finire al mio paese che ho sempre amato. Ricordai le parole del calzolaio Diamantini Emilio quando mi aveva prestato i soldi per andare a Terni: “Vai e fatti onore, ma non dimenticare quel divano dove hai trascorso con me tante ore a parlare” Non so come, ma qualche ora dormii; quando mi svegliai era l’alba. Guardai il cielo limpido, dissi una preghiera e mi chiesi cosa sarebbe successo quel giorno. Mi alzai facendomi coraggio. I miei pantaloni chiari erano tutti sporchi per la cacca che le anatre e le oche facevano sul prato, mia madre mi guardo e mi disse di andare a casa a prendere un altro paio di pantaloni che poi quelli me li avrebbe lavati. lo le risposi pensa ad altro, qui c’è da trovare il pane che è più importante dei pantaloni. Partimmo in bicicletta io e un nostro compaesano, Saladino Gresta che era stato a lavorare a Rodi con mio padre nei lontani anni 1928/29/30, Guardammo i danni del bombardamento, Saladino capì che avevo paura e cercò di farmi coraggio, ma i disastri erano tanti, gente che piangeva, gente che cercava tra le macerie i famigliari. Arrivammo alla mia casa, di fronte alla quale abitava Saladino. Dall’altra parte della piazzetta abitava una famiglia composta dai genitori, da un figlio di circa 10 anni e da una ragazza sui 16 anni di cui ricordavo il nome perché la incontravo quasi tutti i giorni. Si chiamava Loredana, faceva la parrucchiera, era bella, direi bellissima, piena di vita, salutava sempre. In giro non si vedevano bambini, solo uomini attempati che cercavano di recuperare qualcosa scavando con le mani tra le macerie. Vidi l’uomo mio vicino di casa cercare levando con le mani i calcinacci; ad un tratto sentii un urlo: Figlia mia! Aveva visto un lembo del vestito della figlia. Mi fermai a guardare e rimasi come di pietra. Non sapevo se dovevo aiutarlo, guardai Saladino e lui e mi disse: “Andiamo a casa a prendere qualcosa, qui bisogna pensare alla propria famiglia come per dire. Ognuno per sé e Dio per tutti. Saladino aveva 4 figli più piccoli di me. In fretta e furia prendemmo le cose più necessarie. Avevamo un canarino in una gabbietta, presi anche lui. Quando uscii di casa. pag.17
vidi che il signor Pietro, il padre della ragazza morta, si stringeva la figlia tra le braccia e piangeva. Dissi tra me: “Guarda come è andata a finire quella bella ragazza.” Avevo 21 anni, guardai quella ragazza che quasi tutti i giorni incontravo e salutavo, aveva il grembiule alzano, si vedevano le belle gambe Scossi la testa. Saladino mi chiamò. “Andiamo, quella è morta.” Ci incamminammo a piedi, spingendo le biciclette cariche. Quando arrivammo al piazzale del palazzo e palestra della “Gioventù italiana del littorio” (G.I.L.) trovammo un po’ di gente vicino ad un camion militare che dicevano venuto da Roma per distribuire pane. Chiedevano quanti si era in famiglia. Io onestamente risposi che eravamo in sei e mi diedero 3 chili di pane. C’era gente che conoscevo che diceva un numero di famigliari maggiore di quello che era e io rimasi molto male vedendo che in quei momenti tragici c’era gente che si approfittava. Cominciai a domandarmi: “E questa la vita?” Ad un tratto suonò l’allarme. Di fronte c’era una scuola elementare, mi sembra che si chiamasse “Oberdan”, e il mio amico mi disse che lì c’era un rifugio. Entrammo e vidi che nelle aule c’erano dei militari che l’usavano come caserma. Ci infilammo nel rifugio. Più si scendeva e più era freddo. A un certo momento ripresi a salire e Saladino mi disse: “Dove vai?” lo ero tutto sudato, presi un cappotto militare da un attaccapanni e me lo misi addosso. Nel rifugio lo guardai e mi accorsi che c’erano dei gradi militari. Io non li conoscevo, ma Saladino mi disse che erano da tenente. Pensai subito: Non crederanno che l’ho rubato?” Dopo circa un’ora l’allarme cessò, ma non ci fu il bombardamento. Riprendemmo le biciclette e ci incamminammo verso i nostri famigliari. Dovevamo percorrere circa 5 chilometri a piedi trascinando le biciclette cariche di quel po’ di roba sotto il sole. Guardavo Saladino; il sudore gli faceva una schiuma bianca come ai cavalli quando sono sotto sforzo. Quando mia madre vide quei tre chili di pane fece un sospiro di sollievo. Dormimmo ancora una notte all’aperto. Mio padre, che lavorava alla fabbrica di armi governativa, pauroso com’era, voleva andare a vedere, ma io gli dissi: “Ma cosa sanno se sei vivo o morto. Lui ribattè: “Questa è la guerra” Lui, nella guerra del 1915/18 era stato decorato con medaglia di bronzo al valor militare. Mia madre mi disse che lui aveva sempre fatto il suo dovere, ma io, entrando nella vita, mi accorgevo che la vita per i bravi era sempre più dura, ognuno pensava per sé. lo comunque, la mattina dopo, presi la bicicletta e andai a vedere dove lavoravo anche perché dovevo riscuotere dei soldi. Il capo disse a quelli che erano presenti che chi voleva poteva restare, altrimenti doveva passare in ufficio a riscuotere la paga. lo non ci pensai due volte, presi quei quattro soldi che mi spettavano e andai al negozio di alimentari che c’era di fronte, dall’altra parte della strada. Il proprietario, un certo Valdemaro che aveva moglie e due bambini e una bella commessa e con il quale avevo una certa confidenza, mi disse che aveva venduto il negozio e tornava al suo paese, da suo padre, che aveva una casetta con un pezzetto do terra, e mi regaló la sua bicicletta, ché tanto non la portava via. Così arrivai a casa con due biciclette. Mia madre mi chiese dove avevo preso quella bicicletta, preoccupata che l’avessi rubata e si raccomandò che non prendessi mai niente, anche se era abbandonata. La frequenza degli allarmi aumentava e così la paura. Io dissi che volevo andarmene al nostro paese, nella casa del nonno materno Leopoldo soprannominato Pulina? Mio padre che se lasciava il lavoro veniva giudicato un disertore. Anche mia sorella lavorava per una fabbrica del governo. Ragionammo un po’, poi mia madre preparò delle patate lesse che mise in una sporta per il giorno dopo, ma due piccoli maiali lasciati liberi ce le mangiarono tutte, Mia madre era disperata, ma io, come al solito, cercai di farle coraggio. Alle 5 circa del mattino ci incamminammo per dei sentieri fuori della cittá, a volte dovevamo prendere in spalla mio fratello che aveva 8 anni e si stancava. Arrivati a Rocca S. Zenone, a circa 8 chilometri da Terni, salimmo su di un treno e ci sdraiammo stanchi morti. Dopo un’ora una voce avvisò che il treno stava per partire. Il treno cominciò a muoversi piano piano perché era in salita, io vedevo allontanarsi le ciminiere delle acciaierie e scomparire la città nella valle avvolta dal fumo degli stabilimenti. Ci dispiaceva andarcene, perché ormai c’eravamo ambientati, però provavo quasi gioia, perché tornavo al mio paese che ho sempre amato. Il treno si fermò a Spoleto, dove salirono alcuni militi. Mio padre mi ordinò di nascondermi sotto il sedile, su cui poi si sedette mia madre coprendomi con la sua sottana. I militi passavano come cercando qualcosa o qualcuno. Quando il treno ripartì io uscii da quella posizione scomoda e mio padre disse che probabilmente cercavano dei giovani per far pag.18
scaricare qualche vagone. Circa a mezzogiorno arrivammo a Foligno che dista da Terni solo 54 chilometri. Rimasi stupito vedendo che la vita in quella cittá era normale. Noi avevamo fame ma avevamo solo mezzo chilo di pane e una mela in sei. Non avevamo però il coraggio di dirlo. Io scesi per prendere un po’ d’acqua in una bottiglia, e mia madre mi raccomandò di far presto per paura che il treno ripartisse. Presi l’acqua dalla fontanella, poi vidi il ristorante della stazione pieno di gente; vi entrai tra gli sguardi incuriositi per come ero ridotto, sporco e malconcio. Vidi che servivano minestre, peperoni, cipolle cotte e qualche uovo. Chiesi qualcosa al proprietario o chi per lui, ma quello mi guardó e mi ignorò. Ripetei la frase perché la fame era tanta. La gente discuteva e rideva per i fatti suoi, ma a me non badava nessuno. La terza volta alzai la voce, infastidito dell’indifferenza che mi circondava. Quando alzai la voce per la seconda volta, il cameriere chiamo due carabinieri di pattuglia, indispettito che io malmesso dessi fastidio tra quei clienti meglio vestiti. I carabinieri mi fecero cenno di andarmene, ma io insistevo perché la fame era tanta. Poi alzai di nuovo la voce dicendo che eravamo in sei e venivamo da Terni, reduci del bombardamento di tre giorni prima, aggiunsi che avevo solo chiesto da mangiare, che qualche soldo ce l’avevo. I carabinieri guardarono il cameriere come per dirgli di darmi qualcosa, ma lui ribattè che era tutto razionato. Dopo un po’ mi diede un piatto di non ricordo cosa; tirai fuori quei pochi soldi che avevo e con il piatto in mano mi avviai verso il vagone merci adattato per passeggeri, dove i miei mi aspettavano. Quando videro il piatto allargarono gli occhi: c’erano tre peperoni, tre cipolle e una zucchina ripiena. Mia madre fece sei fette di pane con il mezzo chilo che c’era rimasto e divise in sei parti quello che c’era nel piatto. lo pensai: Questa è l’Italia forte che non ha paura di nessuno come ci insegnavano a scuola! Mangiammo quel poco di cibo che avevamo, poi mia sorella Laura disse che il treno non ripartiva e che se bombardavano la stazione eravamo fritti. lo cercai di farle coraggio sia a lei che a mia madre che erano pallide per la paura. Mia madre seguitò a sputare polvere per tre giorni. Dopo circa un’ora il treno ripartì lentamente, poi si fermò a Fabriano.Le stazioni piccole le saltava perché era un treno merci. Mia madre e mia sorella impallidirono di nuovo per timore che non ripartisse, ma dopo mezz’ora si mosse di nuovo lentamente. Piano piano ci avvicinavamo ai nostri luoghi conosciuti e vedevo mia madre sollevarsi d’animo. La dispiaceva di aver lasciato le poche cose che avevamo a Terni, ma in compenso era contenta di ritornare al suo paese e alla casa dove era nata. A Falconara il treno si fermò molto e noi domandammo ad un ferroviere se dovevamo scendere, ma lui rispose che c’era solo da aspettare perché dovevano staccare un vagone e attaccarlo al treno che veniva da Ancona. Guardando le facce preoccupate dei miei famigliari mi chiesi se anche la mia era cosi: avevamo sempre paura dei bombardamenti. Verso sera piano piano il treno ripartì. Si fermava a tutte le stazioni. Io vedevo il mare che a Terni mi era mancato. Il treno si fermò a Case bruciate, poi una lunga sosta a Marzocca e all’imbrunire arrivammo a Senigallia. La città era tutta illuminata, la gente passeggiava ben messa come se non fosse successo niente. Noi eravamo stanchissimi, eravamo partiti la mattina alle cinque. Prendemmo le nostre poche cose e uscimmo dalla stazione. Dall’altra parte della strada vidi la Rocca, vanto della città, ci avviammo lentamente lungo il canale sul fiume Misa. La gente che passeggiava ci guardava come se fossimo bestie rare. Ci sedemmo lungo i portici e mia madre disse. ” Speriamo che a casa di mia sorella ci ricevano e io ribattei che la casa era del nonno e che era poco probabile che lui non ci facesse entrare. Ci avviammo verso l’Ospedale, poi arrivammo alla Cannella dove iniziava la salita. Talora dovevamo caricare sulle spalle mio fratello. Quegli ultimi chilometri sembrava che non dovessero finire mai. Infine arrivammo in cima alla salita, ci fermammo all’edicoletta della quattro figure dove ci facemmo il segno della croce, poi proseguimmo, oltrepassammo la casa del dottore, la scuola e la torre dell’acquedotto. Si faceva sempre più buio, era l’ora di cena e per la strada c’era poca gente. Davanti alla chiesa di S. Liberata mia madre si segnò ringraziando e pregando. Alla casa di mio nonno bussai, poi entrammo. Quando ci videro rimasero stupefatti. Sapevano che Terni era stata bombardata, e ci chiesero se ci eravamo salvati tutti. Mia madre si mise a piangere abbracciando il padre e la sorella, quindi mangiammo quello che ci prepararono. Quella notte riposammo come meglio potemmo. La mattina guardai l’alba dalla finestra, feci un profondo respiro e ringraziai il Signore, poi tornai a dormire. Mia madre e mia zia ci prepararono una buona colazione come fecero non lo so. In paese si era sparsa la pag.19
voce del nostro ritorno e già sentivo qualche amico che chiedeva di me a mia zia. Terminata la colazione scesi in strada, dove incontrai i miei vecchi amici; mi sembrava di essere rinato. Facemmo un giro per il paese e in campagna dove c’erano delle piante da frutto.Mio padre andò a Senigallia sulla biga di un contadino, ma dovette tornare a piedi, verso le 14 tutto sudato. Era andato in Comune dove gli avevano timbrato le tessere che avevamo da Terni e si era iscritto come sfollato per ricevere un piccolo sussidio e altre piccole agevolazioni. Eravamo però tutti grandi, ben sei bocche da sfamare. Io, volenteroso come sempre, andai ad aiutare in campagna. Si andava al Circolo al ascoltare la radio, che era l’unica del paese. Si sentiva che i bombardamenti si avvicinavano e la preoccupazione aumentava, come pure la miseria. Siccome ero un discreto marmista, quando andai a Senigallia in bicicletta mi fermai dal marmista sotto i Portici, il signor Berretti, al quale spiegai la mia situazione. Lui mi disse di tornare il giorno dopo. La mattina seguente mia madre mi preparò due fette di pane, un uovo al tegamino e quattro fichi, li mise nel fazzoletto della spesa e io con la mia bicicletta andai a Senigallia. Aspettai mezz’ora che arrivasse il padrone, il quale, dopo aver dato gli ordini agli operai, venne da me e mi condusse nel locale dove teneva le casse da morto. Mi diede da incidere una lapide e se ne andò. Io lavorai con attenzione. Quando tornò verso le 11,30 mi diede da incidere un’altra lapide. Poiché non mi aveva detto niente, pensai che fosse soddisfatto. Verso sera tornó e mi diede l’incarico di mettere le foto e i vasetti sulla lapide, e disse che il giorno dopo ci saremmo messi d’accordo. Infatti il giorno seguente mi offrì una somma per ogni lettera che scrivessi ed io accettai. Tornai a casa tutto contento e il sabato seguente presi i primi soldi. Di fronte ai miei amici me la passavo abbastanza bene, ma il problema era mangiare.Avevo ritrovato i miei vecchi amici, tra cui Renato Lucchetti che era tornato dopo essere diventato professore di Lettere, ma stava male perché aveva la pleurite. Le figlie del barbiere Bacchi, di cui la più grande, la Lena, era maestra elementare e la sorella Luisa era professoressa. C’era poi Osvaldo Rocchetti, ufficiale dell’esercito. Tra i paesani e quelli che erano sfollati eravamo una buona comitiva, tutti intellettuali, eccetto me che avevo fatto solo la quarta elementare e quel poco di cultura che avevo me l’ero fatta da solo. La comitiva però mi aveva accettato bene, perché tanta era la mia volontà di sapere. Infatti andavo a prendere qualche lezione di inglese da Luisa Bacchi. I miei amici operai mi canzonavano perché secondo loro mi davo delle arie con i miei amici intellettuali. Presto però si ammalò di pleurite mia sorella Armanda a cui diedero la tessera per un pò di carnе e tutti i giorni mi toccava andare ai macelli a fare la fila. La madre di Renato mi ricompensava соn qualche chilo di pane perché andavo a prendere la carne anche per lui. Un giorno davanti ai macelli vidi tedeschi e militi fascisti che perseguivano dei giovani per portarli a scaricare del materiale al porto. Io svelto mi misi su di un occhio la benda che portavo sempre con me e che usavo nel momento del pericolo. Feci anche finta di essere sordo quando mi chiamavano, per cui me la cavai. Tra i miei amici ne avevo uno che si chiamava Evaristo Rocchetti e faceva il birocciaio. Era fidanzato con la figlia più grande del mugnaio. A me piaceva la più piccola Irene, ma anche lei era impegnata con un giovane di Scapezzano. Con tutto ciò nacque una certa simpatia; lei ballava volentieri con me quando c’era qualche festa in famiglia. Gli allarmi aerei arrivarono anche a Senigallia e diventavano sempre più frequenti ; un giorno presi la bicicletta e volai a Roncitelli (se fosse stata una gara avrei sicuramente vinto). Quando arrivai in paese, sentii il rumore degli aerei e delle esplosioni e vedemno del fumo. Scoprimmo che avevano bombardato il ponte ferroviario e quello stradale ma non lo avevano colpito. Il pericolo era sempre più grande, allora mi organizzai; chiesi in prestito da un falegname vicino di casa un carrettino a due ruote abbastanza pesante, lo legai alla bicicletta, poi andai dal marmista Beretti e gli dissi di darmi le lapidi da incidere che le avrei portate a Roncitelli. Lui mi guardò stupito per via della salita, ma io gli dissi che mi avrebbero aiutato mia madre e mia sorella. Così feci; erano cinque abbastanza pesanti e dovemmo faticare non poco su per a salita, così però avevo lavoro per una settimana. Andammo avanti così per un po’. Quando incontravo un contadino con le mucche e il carro agricolo gli chiedevo di attaccarci la mia carretta. Una volta, mentre aspettavo il padrone nel suo locale, sentii dei rumori di passi pesanti sul pavimento del porticato erano militari tedeschi che pag.20
requisivano uomini. Non sapendo cos’altro fare, alzai il coperchio di una cassa da morto e mi ci misi dentro, ricoprendo con il coperchio. Quando più tardi sentii tutto calmo uscii dalla cassa dicendo tra me: “Anche questa volta l’hai scampata.” Quando tornò il signor Beretti e seppe dove mi ero nascosto, mi guardo e scosse la testa, poi mi disse: “Dovresti andare a fare un’incisione su di una tomba al cimitero delle Grazie” e mi diede il nome della tomba. Mi diede anche qualche soldo. Andai al macello a prendere la razione di carne per mia sorella e per il mio amico Renato Dopo pranzo andai all’osteria dove mi dissero che quella sera si sarebbe scanafogliato da “Sartin grosso” Si trattava di pulire il granoturco, si era sempre in 10 e anche in 15 persone. Si mangiavano i fagioli con le cotiche, poi si ballava al suono di una fisarmonica con quelle belle ragazze campagnole. Tornai a casa alle tre del mattino, andai a letto e alle sette mi chiamò mia madre ricordandomi il lavoro che dovevo fare al cimitero, ma ero troppo stanco, cosi mi alzai all’ora di pranzo e nel pomeriggio andai alla bottega del mio amico calzolaio Emilio Diamantini, dove si radunavano molte persone si discuteva della guerra, della linea di difesa che i Tedeschi avevano fatto verso Rimini, del ponte sul Cesano che veniva bombardato tutti i giorni, senza però essere mai colpito. Vero sera, all’ora in cui si recitava il Rosario in chiesa, vidi passare la Irene del mugnaio Radicioni Ugo, ci salutammo(non so se le andai incontro io e se cercò di incontrarmi lei), facemmo due passi insieme discutendo del più e del meno, cosi piano piano arrivammo al bivio del cimitero di Roncitelli. Lei mi rimproverò che non l’avevo mai invitata a ballare, ma io ribattei che davanti a lei c’erano sempre 4 o 5 giovanotti a fare la fila. Allora mi diede la mano sorridendo dicendo che doveva andare a casa se no sua madre avrebbe brontolato. Tornando indietro incontrai sulla porta di casa un’anziana contadina che ci aveva visto e che mi disse: Hai visto come è carina! Guarda che è impegnata. Io feci un gesto come per dire: “Pazienza” E proseguii verso casa. Durante la cena mio padre disse che aveva sentito che gli alleati erano sbarcati a Nettuno, che la Sicilia era occupata e che i Tedeschi avevano minato alcune strade e a guardia avevano messo dei soldati molto giovani che avevano paura più che far paura. Al Circolo sentii il bollettino di guerra che confermava lo sbarco a Nettuno. La mattina seguente presi i miei attrezzi e qualcosa da mangiare( due fette di pane, due sardelle e una frittata) e mi avviai per i campi. Se trovavo qualche frutto lo coglievo e lo mettevo nel fazzoletto dove tenevo il pranzo. Al cimitero di Senigallia, trovata la tomba su cui dovevo lavorare, mi sedetti a fare uno spuntino, poi mi misi al lavoro. Sentivo ogni tanto un fruscio, temevo che fosse una biscia, ma vidi che era solo una lucertola tra le foglie secche, ad un tratto sentii rumore di aerei, ne vidi sei che venivano da S. Angelo, da Scapezzano e poi da Vallone. Sentivo delle raffiche di mitraglia che spuntavano le cime delle molte querce che c’erano nel boschetto intorno al cimitero. lo girai dietro una cappella per ripararmi, ma li vedevo da ogni parte, ad un tratto sulla strada provinciale che da Senigallia porta a Cannella sbucò un camion tedesco, dalla cabina uscirono due soldati e si nascosero in un fosso. Non sapevo cosa fare, ero solo dentro il cimitero con raffiche di mitra che volavano da tutte le parti. Davanti a me c’erano delle tombe basse, una era aperta perché ancora non era finita, con un salto attraversai la stradina che divideva la cappella dalla tomba e mi calai in quella allungandomi sotto l’ultimo loculo. Quando sentii che era tutto finito guardai vero la strada e vidi che il camion tedesco stava bruciando mentre i due soldati uscivano dal fosso e si avviavano per la strada che portava a Cannella. Diedi un sospiro di sollievo pensando che anche quella volta mi era andata bene, poi sentii suonare la campana del convento per mezzogiorno, cosi decisi di mangiare quel poco che mi era rimasto e di lavorare dopo, ma quando aprii il fazzoletto mi accorsi che era tutto invaso dalle formiche con la testa rossa, cosi buttai via tutto nella fratta, fazzoletto compreso e mi misi a lavorare a stomaco vuoto. Non si faceva mai sera, la fame aumentava sempre più, finchè alle 17 radunai le mie cose, le nascosi dietro una tomba e presi la strada verso casa. Se trovavo qualche frutto lo mangiavo. Mia madre si meravigliò che fossi tornato cosi presto, ma io le raccontai ciò che era accaduto e mia madre capì che avevo fame, ma aveva poco de darmi, per fortuna mia zia Ida andò a prendere a casa sua un po’ di farina e con quella mia madre mi preparò qualche crescia sul panaro, quelle che oggi chiamano piadine. Poi andai sul sagrato del paese a parlare con i miei amici, vidi Renato Spadoni che era stato mio compagno di scuola e suonava il sassofono. Mi invitò ad andare a scanafoiare dal contadino pag.21
Moranti che abitava nella contrada S.Antonio che era la mia preferita perché ci abitavano molte ragazze suppergiü della mia età e proprio da Moranti ce n’era una, la Elda, che mi piaceva. Accettal l’invito. Finita la scanaffoiata, facemmo una bella mangiata di fagioli con le cotiche, poi quasi al buio per coprifuoco(ma c’era un bel chiaro di luna)cominciammo a ballare. Tra quel buio ci scappava qualche stretta di troppo, qualche palpata, e con la Elda anche qualche bacio un po’ più lungo. Lei mi sussurrò: “Stai attento, sono fidanzata, qui c’è la zia di Vincenzo.” Vincenzo era il suo fidanzato. All’ultimo ballo mi si avvicinò la fidanzata del mio amico Renato Spadoni e mi fece capire che era contenta di farlo con me, da ciò capii che aveva una cera simpatia per me. Ballammo abbastanza stretti, il fidanzato se ne accorse e dopo che la musica cessó nacque un battibecco tra loro. In seguito divenni amico del padre della ragazza, Ezio, e con la scusa di andare a trovare il mio amico birocciaio Evaristo, trovavo l’occasione di andare a trovare questo Ezio Giovanetti, ma in realtä andavo per la figlia Mariola che era molto carina, ma aveva nove anni meno di me, perció lo non mi spingevo più di tanto. Qualche sera mi facevano fermare a cena con loro e questo sembrava che a lei non dispiacesse. Cosi passavano i giorni, la guerra si avvicinava e le truppe alleate pure, la miseria aumentava e io passavo molte ore a giocare a carte con qualche signora. Tra queste ce n’era una che aveva il marito prigioniero in Africa. Aveva due bambine. Era abbastanza giovane, aveva circa 28 anni, io ne avevo 22. Quando giocavamo a carte ci toccavamo attraverso il tavolo, finché una domenica pomeriggio rimanemmo soli e successe il “fatto”. Io avevo affittato una stanza per pitturare e scolpire le lapidi, lei per starmi vicino cambiò casa e prese l’appartamento sopra la mia botteguccia, cosi l’avevo sempre più frequentemente vicino a me. Quando seppe che ballavo con l’Irene, divenne gelosa. Io ero giovane con pochi, anzi pochissimi soldi. Spesso mangiavo con lei e mi regalava anche qualche soldo, cosi la storia duró a lungo. A me andava bene: mi divertivo, mangiavo e in più avevo qualche soldo. I bombardamenti si avvicinavano, di notte i tedeschi si spostavano per sparare in posti diversi per dare l’impressione di essere più numerosi di quello che erano realmente, requisivano mucche ai contadini e cercavano uomini per accompagnarle verso la Germania. Una sera decidemmo di andare in campagna insieme alla famiglia di mio zio Italo Lucarini che possedeva un terreno di circa 5 ettari. Scendemmo per la stradina di Rupoli. Avanti a me c’era una ragazza di Senigallia sfollata a Roncitelli; strada facendo le misi le mani sulle spalle e come rimanemmo ultimi lei si voltò e io le rubai un bacio. Arrivati sul posto, ci sedemmo attorno ad un grosso tavolo da cucina e ci appoggiammo la testa per dormire, ma io non dormivo, con quel solo occhio che avevo guardavo la ragazza. Quando, non so come, le vidi le belle cosce, mi spostai per toccargliele; all’inizio lei strinse le gambe come se non volesse, ma io insistente le allargai sempre più. Nel locale era quasi buio per il coprifuoco. Dopo un po’ lei si alzò, poi mi alzai anch’io, mentre gli altri dormivano sul tavolo come meglio potevano. Io la seguii dietro un pagliaio e li, senza una parola, successe il”fattaccio”. Non sapevo niente di lei né chi era, né come si chiamava, sapevo solo che era di Senigallia. Uno alla volta rientrammo, tornammo ai nostri posti, dormii un po’ con la testa appoggiata sul tavolo duro. Venne l’alba, poi fu sempre più giorno, ci guardavamo sempre più stanchi e mal messi. Io guardai lei, lei guardó me. Dietro casa c’era un pozzo, tirai fuori dell’acqua per lavarmi il viso. Di fronte a noi c’era un promontorio con un boschetto chiamato “La selva di Venerin”, sotto c’era una casa colonica abitata da un contadino di nome Frulla. Mia madre disse che bisognava andare a casa a prendere quel poco di farina che c’era. Io partii, ma in paese sentii un grosso rumore: dalla scuola verso la chiesa di S. Liberata arrivavano i carri armati degli alleati, scesero nel paese, ma ad un tratto l’artiglieria tedesca, dalle colline di fronte, cominció a sparare. La chiesa parrocchiale fu colpita tre volte, davanti alla casa parrocchiale venne colpito a morte un contadino. Uscì di casa il parroco don Alfredo Montagna che si mie a gridare Ritiratevi, sennó voi fate distruggere il paese! Due carri armati furono colpiti, un soldato fu ferito e un ufficiale morì, poi i due mezzi si ritirarono nelle valli sotto all’edicoletta delle “Quattro figure”. Tutto cessò. Io presi quel po’ di farina, misi il sacchetto sulle spalle, davanti alla chiesa feci il segno della croce come per ringraziare Dio dello scampato pericolo. Ad un tratto vidi due soldati tedeschi con un mulo che trainava un carro. Pensai: “Questi vogliono vincere la guerra! Non hanno più niente!” pag.22
Ad un tratto esplose un proiettile sul marciapiede e una scheggia troncò di netto una gamba al tedesco che teneva le briglie del mulo. Mentre quello urlava, il suo compagno lo guardò, poi gli allargó la mano e prese le briglie per proseguire, lasciando lì il compagno. Erano in ririrata, portavano via quel che potevano. Arrivato dai miei, raccontai l’accaduto e aggiunsi che lì non restavo, perché c’era il pericolo dell’avanzata, era meglio andare sotto la selva di Venerin dove eravamo più riparati. Mio zio mi guardó tutto impaurito. Ci avevo lavorato dall’età di 13 anni, a mio padre non aveva mai dato lavoro perché non gli era simpatico ed era quello che, quando lo incontrava di ritorno da Senigallia a piedi, ma lui era in macchina(era stato il primo in paese ad averne una), non l’aveva mai invitato a salire. Sotto il promontorio, a ridosso della selva, decisi con mio padre di scavare un rifugio. Le pale e il piccone ce li prestò il contadino, la terra l’ammucchiavamo davanti come per riparo.
Mio zio ci chiese di aiutarlo a scavare un rifugio anche per lui. Eravamo 5 famiglie più o meno numerose, la più numerosa era la nostra. Fatte le buche proposi di collegarle tra loro, cosi con la terra estratta creammo un bel mucchio davanti per riparo. Il contadino accese il forno per cuocere il pane e mia madre gli chiese di farlo anche per lei. Terminato il rifugio mio zio pensò di ricompensare mio padre con un po’ di denaro, ma lui, sempre generoso, rifiutó, disse: Pensiamo a salvare la pelle. Di fronte a noi c’erano piante di pomodoro, di melone e cocomero, mangiammo i frutti senza che il contadino dicesse nulla, capiva la situazione, anzi quella sera ci portò della minestra con fagioli, fumó una sigaretta fatta con foglie secche di quercia. La notte ci ritirammo ognuno nel suo rifugio dopo aver preso della paglia. Stanchi come eravamo, ci addormentammo per terra sopra la paglia. All’alba mi alzai: era un bel sereno, le stelle stavano scomparendo per il chiarore del giorno che aumentava. Mentre, seduto su di un mucchio di terra meditavo, sentii un rumore tra i cespugli, non era né notte né giorno, mi voltai e vidi la sagoma di un uomo con una divisa che non era italiana o tedesca. Si avvicinò impaurito e in un italiano poco comprensibile mi chiese come poteva tornare indietro, facendo cenno con la mano, sottovoce, che là c’erano soldato tedeschi. Compresi che apparteneva al corpo alleato e gli feci cenno come poteva risalire il bosco. Era ben messo, sbarbato, con la divisa pulita e una retina davanti al viso, estrasse da una borsa delle cose e me le diede, mi salutò e risalì il bosco. Guardai cosa mi aveva dato: erano 4 stecche di cioccolata e in un barattolo alcune sigarette. Non sapevo se avvisare i miei che dormivano, ma poco dopo uscì mio padre che mi chiese con chi parlavo. Gli raccontai tutto e gli mostrai quello che mi aveva regalato. Lui, che aveva fatto otto anni di guerra, disse che era un soldato di pattuglia che si era staccato dai suoi compagni e si era perso. Aggiunse che l’occupazione doveva essere vicina. Nei tre mesi che andai alla contrada S. Antonio perché ero amico del figlio Alfio, ma soprattutto perché c’erano quelle ragazze che mi piacevano, un giorno si seppe che i Tedeschi si erano ritirati e avevano aperto i Consorzi del grano. Tutti correvano con qualsiasi mezzo avessero a disposizione. Io presi la mia bicicletta da corsa e corsi a casa. Parlai con le sorelle, trovai in prestito una carretta e tutti e tre andammo alla Casine di Ostra al Consorzio, dove constatammo che era vero. Avevamo otto sacchi che contenevano un quintale di grano ognuno, li riempimmo in fretta e furia, fortuna che la carretta era robusta, e ci avviammo sotto il sole con fatica verso casa. Dal consorzio al mio paese ci sono 10 chilometri, la fatica era tanta e così pure la fame. Non eravamo soli, c’era una bella fila di gente come noi. Quando sentimmo due aerei girarci sopra, ci impaurimmo perché potevano scambiarci per truppe in movimento, era già successo ad Urbania che ad una fiera avevano bombardato la popolazione scambiata per soldati. Tutti sudati arrivammo alla località chiamata “Giannin”, vicino alla frazione del Brugnetto dove era arrivata mia madre, da li al paese c’erano tre chilometri tutti in salita. Con la bicicletta andai dal contadino Moranti e gli chiesi di portarmi il grano con il suo biroccio. Lui, senza discutere, attaccò le mucche e raggiungemmo mia madre e le mie sorelle che, quando ci videro, diedero un sospiro di sollievo. Una volta che tornavo da Senigallia, dove ero andato a prendere la carne con la tessera per mia sorella e per il mio amico Renato, al Borgo Ribeca incontrai la maestra Lena Bacchi che era della nostra compagnia, proseguimmo parlando, quando, all’altezza dello stradone delle Grazie, cioè del pag.23
cimitero, suonò l’allarme Ci rifugiammo sotto il posticino in cui si erano salvati i due tedeschi che precedentemente avevo visto dal cimitero, quando avevano bruciato il loro camion. Sentendo i botti delle bombe che cadevano ci guardavamo. Cessato l’allarme uscimmo dal riparo e ci avviammo verso casa. In cima alla salita dove abitava il mio amico Rocchetti vidi un aereo a bassa quota nella valle sotto Scapezzano. Arrivato verso il cimitero di Roncitelli due aerei da caccia tedeschi che lo inseguivano cominciarono a mitragliarlo, allora la fortezza volante scaricò 5 grosse bombe dietro il cimitero del mio paese, vicino alla casa del contadino Schiaroli. Tutto questo accadde prima dell’arrivo dei carri armati alleati che poi si ritirarono poco lontano dal paese. In seguito tutto tornò calmo e io andai da Moranti, cosi almeno a mezzogiorno mangiavo, infatti i contadini se la cavavano sempre. Presi la bicicletta e mi avviai verso la contrada S. Antonio, davanti alla scuola incontrai la Irene la quale mi disse con il solito sorriso geniale che era andata dal dottore per sua madre. Ci demmo la mano augurandoci che tutto finisse presto e lei ribattè : ” Così potremo andare di nuovo a ballare. Ci salutammo e poi ognuno prese la sua strada. E così con un sacchetto di farina sulla bicicletta uscii a raggiungere i miei genitori in quel rifugio da noi costruito. Il mattino prima delle 10 si usciva dal rifugio perché tutto sembrava calmo, ma verso le 10 iniziavano a sparare colpi di mitra e si sentiva il rombo degli aerei in cielo; erano gli aerei alleati a bassa quota. Girava spesso un piccolo aereo da ricognizione che chiamavamo la cicogna. Di fronte, sulla collina dove c’è il cimitero del paese stazionavano le truppe tedesche che dalle tombe avevano tirato fuori i morti e vi dormivano e si riparavano. Solo al mattino si poteva a andare a prendere qualche pomodoro, melanzana o cocomero e mia madre con quella poca farina faceva qualche crescia. Io e il mio amico Osvaldo Galli avevamo fatto un piccolo rifugio per noi due dove ci ritiravamo per dormire perché eravamo giovani e c’era la possibilità di essere prelevati dai tedeschi. Un giorno mia madre ci raggiunse tutta affannata dicendo che i tedeschi cercavano uomini. Io entrai nel rifugio e mi nascosi sotto la sottana di mia madre che si mise seduta sopra di me. I tedeschi chiesero dove erano gli uomini e mia sorella rispose: “In paese, ma quelli non erano convinti.. Quando venne sera corremmo nel nostro rifugio privato che nel frattempo si era riempito di pulci e pidocchi. Noi restammo fermi e zitti quando i tedeschi tornarono. Quella sera presero mio padre, mio zio e altri due uomini e li portarono lungo il fosso a scavare buche dove depositare mine anticarro. La mattina tornarono a casa. Mia madre disse che era finita la farina, io, senza far parola, presi la bicicletta e il solito sacchetto andai in paese a casa di mia zia Ida dove avevamo depositato il grano. Riempito in fretta il sacchetto, uscii di casa e vidi un soldato tedesco che aveva piazzato in una buca una mina in prossimità della curva. Lui mi disse di andare via, chè li domani ci sarebbero state le truppe alleate, quindi appiccò il fuoco ad una miccia collegata alla mina e si allontanò. Dopo 10 metri circa si fermo a vedere l’esplosione che aveva prodotto una bella buca in mezzo alla strada e capii che tentava di intralciare l’arrivo degli alleati. Corsi dai miei e riferii quello che avevo visto. Venne sera, mio padre, esperto com’era, disse che c’era troppo silenzio. Al mattino mi alzai presto e uscii dal rifugio: erano le 7. All’improvviso sentii alle spalle il rumore di mitragliatrici che sparavano verso le colline di fronte, mi affacciai dalla bocca del rifugio e vidi che sparavano anche dai cannoncini. Dal fosso lontano da me 60 o 70 metri salivano fumo e fuoco, la collina di fronte era diventata invisibile. Tutto finì verso le 11, poi sentimmo un forte rumore cupo che si avvicinava: erano dei grossi carri armati che passavano tra le vigne cariche di uva matura, tra gli olivi e tutto quanto si trovavano di fronte travolgevano. Sparavano dai carri armati e sparava l’artiglieria per preparare loro la strada; ogni tanto vedevo lanciare in aria dei razzi luminosi di colori diversi e mio padre disse che erano segnali per l’artiglieria per indicare la posizione. Poi tutto si fermó e mio zio disse Questa per loro è l’ora del tè – Erano circa le 11. I carri armati erano tanti e dietro c’erano 8 o 10 soldati a piedi: la fanteria. Erano ben vestiti, sbarbati, con retina antizanzara, mentre noi eravamo tutti sporchi e infangati dopo un mese nel rifugio e 3 anni di guerra. Dissi a mia madre che sembravano andare ad un matrimonio. Avvertii un soldato che c’erano delle mine, ma lui mi rassicuro. Ci diedero cioccolata, pane bianco, sigarette, caramelle sembrava la manna caduta dal cielo. Poco dopo sentii un forte botto e vidi che un carro pag.24
armato era passato sopra una mina. I tedeschi sparavano per cercare di contrastare l’avanzata. Solo un giovane rimase colpito da una piccola scheggia vicino all’occhio. Un soldato mi disse: “Tu essere giovane, noi venire a combattere per liberare voi” allora entrai nel rifugio e misi la benda all’occhio da cui non vedevo, poi uscii. Un soldato mi chiese se ero stato ferito e io feci di si con la testa anche quella volta la benda aveva funzionato. Quell’occhio che non era stato operato mi aveva salvato dal fare il militare, mentre i miei compagni erano in Jugoslavia o in Russia e molti non erano tornati. Pensai che non c’è disgrazia che non porti fortuna. Visto che la battaglia non finiva mai pensai ancora: “Non ho fatto il militare, siamo scappati da Terni da un bombardamento, siamo finiti qui un mese nella terra di nessuno proprio in mezzo alla battaglia, che Dio ce la mandi buona!” Alle 19, era ancora giorno, tutto cessó. La fanteria protetta dai carri armati aveva circondato il cimitero. Poi si seppe che i tedeschi nascosti nelle tombe erano circa 250. Arrivò un soldato alleato con il mitra spianato contro due prigionieri con le mani alzate, sentimmo un colpo e uno dei tedeschi si abbattè al suolo. L’altro caricò sia il vivo che il morto su di una camionetta. Mia madre gli chiese perché avesse ucciso il tedesco e lui rispose che loro erano due contro lui solo e che se gli avessero tolto il mitra la festa sarebbe toccata a lui. Poi mise una mano sulla spalla di mia madre e disse: La guerra è la guerra e proseguì per la sua strada. Verso sera il pericolo si era allontanato, così uscimmo tutti dai nostri rifugi e ci radunammo con la famiglia del contadino che ci ospitava e quelli che erano sfollati nella casa di fronte distante circa 200 metri. Si aggiunsero anche 10 o 12 soldati di occupazione che credevo inglesi invece erano polacchi, puliti, ben vestiti, pieni di ogni ben di Dio. Uno di loro aveva una piccola fisarmonica e si mise a suonare poi a ballare. Mi sembrò una cosa strana e feci un’osservazione con mia sorella. Un militare mi disse: “Tu essere fascista allora pensai che facevo meglio a stare zitto. Il contadino diede da bere del vino a tutti sembrava una festa, mentre le truppe erano ancora verso Mondolfo. Tornammo al nostro rifugio. Mia madre disse che il giorno dopo saremmo tornati a casa. Quella notte dormii all’aperto, di quel rifugio non ne potevo più. Venne l’alba, sembrava di respirare un’altra aria. Mentre mia madre radunava i nostri pochi stracci, verso le 9, vedemmo venire verso di noi attraverso i campi una camionetta con due militari. Chiesero a mio zio dove potevano trovare Ballanti Armando e lui indicó me. Erano due della polizia neozelandese. Mia madre si preoccupó subito: Cosa vogliono da te? Cosa hai fatto? e io ribattei: Cosa vuoi che abbia fatto, se è un mese che sono qui sotto! Uno di loro mi disse di andare in Comune con loro, che poi mi avrebbero pagato. Salii sulla camionetta e attraversammo i campi poi passammo per la stradina di Rupoli che porta in paese. Davanti alla chiesa e in paese c’era della gente, cosi sentii mormorare da qualcuno hanno portato via Pitin. Arrivati a Senigallia, mi fecero salire alla sala grande del municipio che ben conoscevo, dove si andava per parlare con il Podestà, il signor Allegrezza. Guardandomi intorno non vidi più la foto del Duce e quella del re, c’era solo il Crocifisso al centro della parete. Al tavolo erano seduti due militari con dei vistosi gradi, uno di loro mi chiese se avevo lavorato per il signor Beretti, il marmista, quindi mi disse che avrei dovuto incidere delle lapidi. Mi diede un foglio di carta dove c’era scritto: Governo militare alleato con sigla A.M.GO.T. Quindi mi disse di andare dal signor Beretti per mettermi d’accordo e aggiunse, dandomi un foglietto, che con quello potevo essere accompagnato in qualsiasi posto volessi da qualsiasi mezzo militare. Il signor Beretti mi mostrò delle scritte in polacco che avrei dovuto incidere su alcune lapidi lunghe circa un metro e mezzo da porre su tombe a terra come monumentini. Mi diede poi appuntamento per il giorno dopo. Il militare che era con me mi fece cenno di seguirlo, quando passò una colonna militare fece cenno ad uno in motocicletta di fermarsi e gli mostrò il foglio che avevo ricevuto. Lui fermò una camionetta, parlarono un po’, poi il militare aprì lo sportello e mi fece salire e mi accompagnó al mio paese, al rifugio dove tutti mi guardarono come se fossi una bestia rara. Il militare, prima di andarsene, mi diede sigarette e cioccolata. I miei mi tempestarono di domande. Mia madre mi diede del pane che mangiai con la cioccolata. Più tardi ci avviammo verso casa con quei pochi panni sporchi che avevamo e ci presentammo alla casa di mio nonno dove abitava mia zia con i suoi. Vidi mia madre discutere con la sorella animatamente, mentre mio padre se ne andò via subito avendo capito che mia zia era spinta dai suoi. pag.25
Ci disse infatti che non c’era più posto per noi. Mia madre quasi piangeva, ma tornò mio padre che ci condusse al castello, lì c’era, vicino al forno, una grossa casa di cui era proprietario Carbonari Emilio che aveva lavorato con mio padre a Rodi. Sentii quell’uomo massiccio dire: “Ora penso a sistemare la tua famiglia, poi discuteremo Il giorno dopo all’alba mia madre mi diede quel poco che aveva e me lo mise in un fazzoletto della spesa; il fazzoletto era grosso, ma il mangiare poco. Andai sulla strada dove ogni tanto passavano dei militari, ne fermai uno e gli mostrai il foglio che mi avevano dato in Comune. Lui mi fece salire e mi accompagnó al laboratorio del signor Beretti. Quando questi arrivò mi spiegò cosa dovevo fare. Ogni tanto veniva a trovarmi qualche militare amico di coloro per cui dovevo scrivere le lapidi, ogni volta mi lasciavano qualcosa, come biscotti. Quando venne sera andai al ponte sul Misa, fermai una camionetta e così tornai a casa. Aprii il fazzoletto da spesa che era più pieno che al mattino c’erano due stecche di cioccolata, un pacco di biscotti e due scatolette di carne. Le mie sorelle e mio fratello allargarono gli occhi. Mangiamo quello che avevo portato, ma non tutto, mia madre era sempre preoccupata per il domani. La sera non si poteva uscire, ma con qualche radio di fortuna si sentiva Radio Londra e la voce dell’ America che ci informava dell’avanzata alleata. Ancora c’era il coprifuoco. Con il permesso del governo militare che io avevo, facevo non so quanti favori alla gente del mio paese che non poteva andare in città. Un giorno il signor Beretti mi mandó con un altro operaio al cimitero di Ostra per accomodare il monumentino di un capitano deceduto. Caricammo i pezzi di marmo su di un mezzo militare e con tutta l’attrezzatura arrivammo al cimitero di Ostra che dista circa 15 chilometri da Senigallia. Mentre lavoravo arrivarono dei soldati con due graduati e una donna polacca alta, bionda, con occhi celesti e dei gradi. Quando il lavoro fu finito scattarono delle fotografie e la donna volle che venissimo fotografati anche noi vicino alla tomba. La guardavo interessato perché da noi donne militari erano una novità e anche perchè era bellissima, il petto le si sollevava e si abbassava e le lacrime le cadevano sul mento. Non dimenticherò mai quella scena. Lei rimase ferma in piedi come una statua, senza parlare, ma si vedeva che il dolore era tanto. Si avvicinarono due alti ufficiali che si misero a parlare nella loro lingua e capii che cercavano di farle coraggio. Chiesi all’autista che parlava un buon italiano chi fosse quel morto e lui mi rispose che era il marito della donna e che aveva voluto farsi fotografare davanti alla tomba perché i genitori di lui non erano stati d’accordo sul loro matrimonio e lei voleva mostrare loro che l’aveva seguito fin sulla tomba. Chiesi al militare come mai i Polacchi fossero in Italia a combattere, lui mi fece allontanare dalla tomba, poi mi disse che quando la Russia aveva occupato la Polonia avevano eliminato la piccola proprietà terriera deportando in Siberia chi si opponeva anche per motivi religiosi, anche perché i Polacchi erano molto cattolici. Poi gli Inglesi ci chiesero se preferivamo alla prigionia in Siberia venire a combattere in Italia, promettendoci che a guerra finita saremmo tornati in Polonia. Così avevano formato un’armata sotto il comando degli alleati. Però la Polonia era stata occupata a metà dai Tedeschi che avevano arruolato gli altri Polacchi, per cui ora si trovavano a combattere tra fratelli. Gli chiesi poi cosa significasse la scritta che avevo inciso sulle lapidi: “napolu kvali pres nitobie” e lui mi rispose che significava: “morto per la patria.” Io tacqui, ma pensai che erano lontani dalla patria e per di più divisi. Lui disse: “Questa è la guerra. Speriamo di riunirci un giorno” I due ufficiali presero sotto braccio la donna, vennero verso di noi e ci diedero delle scatolette e delle sigarette, ci salutammo e se ne andarono. Io e il mio amico che si chiamava Americo caricammo i nostri attrezzi sulla camionetta che ci riportò a Senigallia Da quel lontano 1943 tante volte ho pensato di fare un quadro di quella scena indimenticabile, ma ancora non ci sono riuscito. Il fronte si allontanava, la vita in paese stava riprendendo il suo corso, tornarono i militari, anche quelli fatti prigionieri. Tornó anche il marito della signora con cui mi divertivo, ci siamo incontrati ancora qualche volta, ma poi tutto finì soprattutto per mia volontà. Dopo un po’ di tempo ci incontrammo per caso, parlammo, poi mi chiese se pensavo a lei qualche volta, io ribatteI: “Come no!” – ma aggiunsi che ormai lei aveva la sua famiglia. Ci demmo un ultimo bacio e ci salutammo. Io ero giovane, pieno di vita, c’era un po’ di libertà, ma c’era pure un po’ più di disordine e sotterfugi, cose che non andavano troppo bene per il mio carattere. pag.26
Mia sorella guarì dalla pleurite e così pure il mio amico, il professore Renato Lucchetti soprattutto con l’aiuto del parroco don Alfredo Montagna. In parrocchia c’era un cappellano nostro compaesano, don Marino Marinelli, con il quale io e il mio amico Renato organizzammo molte recite. Un giorno, la guerra non era ancora finita ma era sempre più lontana, mio padre disse che sarebbe andato a Terni per vedere la nostra casa, poiché i treni camminavano solo per trasportare materiale militare, sarebbe andato a piedi con la speranza di trovare qualche mezzo di fortuna. Allora io pensai a tutto ciò che aveva sofferto mio padre. I genitori gli erano morti quando lui aveva 12 anni, a 16 anni era dovuto andare a lavorare il Germania con il fratello maggiore. Nel 1910 era dovuto tornare per fare il militare altrimenti l’avrebbero considerato disertore. Per servire la patria era sempre stato pronto al sacrificio. I parenti di mia madre, i Lucarini, lo avevano sempre fatto lavorare poco. In tempo di guerra si era prestato ai servizi piú umili con la speranza che poi si sarebbero ricordati di lui. Dopo 10/12 giorni ci arrivò una lettera in cui diceva che era arrivato e che avrebbe cercato le cose che avevamo lasciato in giro, poi sarebbe tornato. Dopo due mesi tornò. Giá c’erano più mezzi di trasporto, anche se di fortuna, qualche treno cominciava a circolare. Si presentò dai miei parenti, ma loro dissero che per lui non c’era lavoro. Tirammo avanti alla meglio, il lavoro con il marmista Beretti stava per finire, anche perché i suoi vecchi operai tornavano dalla guerra e riprendevano il loro posto. Io sono stato sempre orgoglioso; ricordo che quando andavo a lavorare con i militari il materiale che arrivava era tanto, i miei amici andarono a scaricare qua e là. Quando mi chiesero cosa sapevo fare mi chiesero se sapevo scrivere con il pennello dietro i mezzi militari, così mi mandarono al Cesano dove c’era in costruzione una fabbrica di scatolette di carne che le truppe di occupazione trasformarono in magazzino di viveri e vestiario per tutta l’ottava armata. Così i soldi non mancavano, io non pensavo di tornare a Terni, anche perché non mi piaceva molto quella conca nebbiosa e piena del fumo delle ciminiere. Un giorno andai a trovare la famiglia Moranti dove ero stato sfollato. Mi chiesero se potevo aiutarlo in campagna, ma io risposi che stavo per riprendere il mio lavoro: poi mi chiese quanto volevo per l’aiuto che avevo dato, ma io risposi che avevo mangiato, qualcosa avevo portato ai miei, la pelle l’avevo salvata, quindi eravamo pari. Vidi che il fidanzato di Elda con cui avevo passato dei bei momenti era tornato. La sera seguente mi trovavo all’osteria con i miei amici Tito Federiconi e Remo Fraboni, proposi di organizzare una festa da ballo nei locali della scuola che erano chiusi perché non avevano ripreso le lezioni. La mattina seguente andai dalla bidella, ma quella rispose che l’avrebbero cacciata via.. Io ribattei che eravamo giovani e avevamo bisogno di divertirci, aggiunsi anche lei aveva tre figlie femmine e un maschio. Dissi che se veniva qualcuno poteva dire che avevamo rotto il vetro della finestra. Stette un po’ pensosa, ma alla fine ci apri la scuola. Poiché non c’era la luce trovai in prestito delle acetilene, 25, che in qualche modo piazzammo in aria. Poi andai a Scapezzano a parlare con Alfiero, un portalettere che suonava il clarino e un certo Titti che suonava la batteria. Avevano per amico uno che suonava la fisarmonica. Poiché non avevamo una lira proposi loro di dividere a metà gli incassi. Accettarono. Andai da un contadino con la stessa proposta, così ci diede due damigiane di vino. Poi andai al bar davanti alla chiesa parrocchiale dalla Agrippina, il cui figlio Dante aveva simpatia per mia sorella Laura e le dissi che le avremmo pagato le bottiglie di liquore incominciate. L’acqua per lavare i bicchieri ce la portò un contadino con le mule. Feci un manifesto, passai voce e così il sabato sera incominciò la festa. Misi il mio amico Vincenzo Curzi a vendere le bevande. La prima serata riuscì abbastanza bene, ballammo sino alle sei del mattino. Ci radunammo io e i miei amici per fare i conti. Con l’incasso (gli uomini pagavano 50 lire, le donne nulla) pagammo i debiti, poi andammo a bussare da Calducci Guido che comprava clandestinamente le pecore e comprai due chili di carne di pecora, poi Curzi Vincenzo procedette alla cottura e ce la mangiammo. I soldi rimasti li divisi in quattro e ognuno ebbe la sua parte Il sabato dopo si sparse la voce e ci fu molta più gente, vennero dai paesi vicini, vennero militari americani e altri di occupazione. Ci fu un pienone e incassammo di più. Quando venne novembre, il mese dedicato ai morti, non ballammo. Ancora la scuola era chiusa, per cui mi organizzai meglio per la seconda festa di Natale. Seguitai fino a quaresima tutti i sabati con i militari che spendevano generosamente. pag 27
L’ultima festa la facemmo a mezza quaresima: dopo un’ora che avevamo iniziato arrivarono due carabinieri e ci dissero che ci voleva il permesso. Arrivarono poi due della polizia neozelandese. Io dissi alle donne di andare in un’altra aula e quando la polizia se ne andó feci ricominciare a suonare e a ballare. Verso mezzanotte ritornarono sia la polizia che i carabinieri. “Siamo giovani” dissi “lasciateci divertire.” Si guardarono e poi sorrisero, cosi diedi loro da bere e seguitammo a ballare sino al mattino dopo. C’erano dei giovani del vicino paese di Scapezzano; erano sempre degli attaccabrighe. Dissi al mio amico Vincenzo: “Apri la finestra”, poi presi uno di quei giovani con una mano sulla spalla e una sul sedere, lo portai vicino alla finestra e gli dissi che se non finiva di piantar grane lo buttavo di sotto. Tutto si calmò e la serata proseguì tranquilla. Già stavo pensando di organizzare per la seconda festa di Pasqua, quando mi chiamó la bidella, la signora Alfa e mi disse che non potevamo più usare la scuola perché dovevano fare dei lavori, dato che a settembre sarebbe stata riaperta. Durante l’estate organizzai qualche recita in parrocchia con la collaborazione del mio amico Renato. Poi venne l’autunno e io ebbi un’idea: nella piazza della chiesa c’era e c’è il vecchio frantoio che era chiuso. Poiché conoscevo il proprietario, il signor Pongetti, una sera dissi a tre miei amici di chiedere di affittare il locale. Ci fu data la chiave e andammo a vedere il piano superiore del mulino dove depositavano le olive che poi con un tubo scendevano al piano di sotto. Demmo una bella pulita, aggiustammo qualche mattone del pavimento e cosi il mese di dicembre ricominciammo le nostre feste. Veniva tanta gente, militari di tutte le razze. Gli inglesi erano i più attaccabrighe. Una sera, mezzo ubriachi, cominciarono a rompere i bicchieri e a fare altri dispetti. Io ero amico di un marinaio che aveva simpatia per mia sorella Armanda, il quale mi consigliò di far smettere di suonare e di far mettere le donne da un lato e gli uomini dall’altro, poi lui con alcuni amici pure marinai prese gli inglesi e li mandó fuori. Quindi si avvicinarono agli altri militari e fece restare solo chi non era inglese. Riprendemmo a ballare, ma fuori i militari inglesi non si diedero per vinti, cominciarono a rubare biciclette e tutto quello che trovavano a portata di mano. Allora salimmo in quattro o cinque sulle mura del Castello, prendemmo dei mattoni rotti e incominciammo a tirarli sui camion dei militari che si affrettarono ad andarsene. In quelle serate nacque un idilio tra me e l’Irene la quale però mi disse che suo padre Ugo non era molto contento della cosa, mentre alla madre non dispiaceva. A me l’Irene piaceva. L’inverno stava finendo, in Italia i partiti si stavano organizzando, una sera i consiglieri del Dopolavoro mi chiamarono per dirmi che volevano rimettere a posto il locale che era stato danneggiato dalla guerra e avevano chiesto al proprietario del frantoio di usarlo durante i lavori. Siccome si era vissuti per 20 anni in una mezza dittatura quel sistema dei partiti era per me una novità, tutti avevano fiducia nel cambiamento. Cedetti il molino, dove seguitarono a fare qualche festa. Tutto era all’insegna della solidarietà. Nato sotto il regime fascista, avevo l’impressione che in un certo senso l’individuo veniva svalorizzato. Era il 1946: i partiti politici si davano battaglia e se ne dicevano di tutti i colori, la lotta era tra comunisti e democratici cristiani. Il comunismo ateo era contro la religione, cioè contro i democristiani. Dove lavoravo al Cesano con le truppe alleate il lavoro stava finendo: l’ottava armata si era ritirata, perciò il magazzino non serviva più. A casa si parlava di tornare a Terni e a me non andava l’umiliazione di andare a chiedere lavoro alle imprese di Senigallia che avevano sempre i loro ruffiani. Rimasi assai male quando incontrai per strada dei soldati polacchi che avevano combattuto in Italia con la promessa che, finita la guerra contro i Tedeschi, avrebbero proseguito contro i Russi per liberare la loro patria. Seppi da uno di loro che era mio amico che invece avevano tolto loro mezzi e armi e ora dovevano fare l’autostop. Disse anche che all’Ospedale militare di Ancona aveva ritrovato suo fratello che era stato deportato dai tedeschi e aveva dovuto combattere con loro, cosi avevano combattuto l’uno contro l’altro.*** Tornando un po’indietro a quando organizzavo le feste da ballo nelle aule della scuola elementare e al vecchio frantoio, ricordo che una sera un mio conoscente che suonava il clarino nella banda di Senigallia e si chiamava Ubaldo venne a ballare con la fidanzata Santina che era del mio paese e con un’altra bella ragazza dai capelli ossigenati sul rossiccio, aveva delle calze a rete, mai viste. Le chiesi di fare un ballo, ma lei rispose di no. Quella stagione passò e l’anno successivo tornò con il mio amico e la sua fidanzata a ballare al vecchio frantoio. Le chiesi di ballare, ma lei rifiutò, dopo pag.28
un po’ le chiesi ancora di ballare con me e lei acconsentì. Ricordo che facemmo due balli, dopo la mezzanotte le chiesi ancora di fare un ballo e lei acconsentì. Dopo smisi di fare le feste perché quelli del Circolo vollero il locale, così non la vidi più. Con i miei tornai a Terni con le nostre poche cose: quattro anni prima eravamo partiti da pellegrini e ora tornavamo da pellegrini. Riprendemmo la vita di prima, io mi presentai nel laboratorio del marmista signor Colasanti e ricominciai a lavorare. Mia sorella Laura tornò a lavorare da commessa nel negozio del mio amico Riccardo, mia sorella Armanda si mise di nuovo a fare la sarta con l’aiuto di mia madre, mio fratello Caffiero aveva finito la scuola e parlavano di mandarlo a lavorare. Io dissi ai miei di mandarlo a qualche scuola, così fece due anni di Istituto tecnico industriale. Io rimasi dal signor Colasanti un anno, poi un altro marmista mi offrì una paga più alta, così andai a lavorare dal signor Benvenuti dove feci anche degli straordinari, ma ben presto subentrò l’invidia da parte degli altri operai e soprattutto da parte del capo operaio perché il sabato sera la mia paga era più alta. Il mio amico Riccardo mi presentò al proprietario di uno stabilimento dove facevano cartoline di auguri e mi fece fare il disegno per una tomba la cimitero di Terni. Il disegno dovetti farlo firmare da un geometra pagandolo perché la mia firma non era valida. Il lavoro in muratura lo feci io e quello in marmo e in travertino andai a farlo da un mio amico che però si prendeva quasi tutto il guadagno. Mio fratello, finiti i due anni all’Istituto tecnico, venne a lavorare con me, mia sorella Armanda si era fidanzata e mia sorella Laura venne di nuovo chiesta da Dante dell’Agrippina che in precedenza aveva rifiutato. Questa volta acconsentì. Lui le scrisse che a Senigallia aveva impiantato una piccola fabbrica di spumante e che la domenica successiva sarebbe venuto a Terni. Così fu; venne e si portò da mangiare. Va bene che eravamo poveri! Non fu molto simpatico Con quel gesto si creò un certo distacco. Il fidanzamento fu di breve durata per la lontananza e per la differenza di età (mia sorella aveva nove anni meno del fidanzato ). Il matrimonio fu poco lussuoso perché non c’erano le possibilità. Io le feci come regalo un credenzone da cucina come andavano di moda allora. Dopo il pranzo gli sposi se ne andarono con la madre, la sorella Clelia e il cognato Guido. Intanto mi ero fatto delle invidie perché facevo il lavoro sia da muratore che da marmista, così decisi di andare da uno scultore di Pietrasanta in provincia di Massa, un certo Aleardo Monsignori Arrivai vero sera: c’era un’aria fresca che metteva appetito, di fronte avevo il mare e alle spalle le montagne. Andai a mangiare in una trattoria lì vicina. Chiesi dove potevo andare a dormire. Uscito, una signorina che dentro il locale mi aveva chiesto un fiammifero per accendersi la sigaretta, mi si avvicinò e si mise a parlare. Ci avviammo dietro un vagone ferroviario e ci sdraiammo sopra un blocco di marmo. Le offrii duecento lire che lei rifiutò, poi le prese di malavoglia dietro le mie insistenze. Andai a dormire e la mattina dopo mi recai dallo scultore a cui mostrai il mio modellino di creta del monumento funebre, ci accordammo sul prezzo e il tempo che occorreva per realizzare la statua. A casa trovai la brutta sorpresa che mio padre era caduto da un’impalcatura e si era infortunato a un tallone. Poiché lavorava senza essere in regola, non volemmo fare nessuna vertenza sindacale, cosi mio padre si ridusse col bastone e io dovetti accollarmi il peso della famiglia. Dopo un po’ si ammalò mio padre e il dottore disse che aveva un principio di tifo, le medicine le andai a prendere nell’unica farmacia che le avesse e le pagai un po’ per volta. Dopo un po’ si ammalò mia sorella Armanda, il dottore disse che aveva un focolaio al polmone destro e che si poteva curare a casa con un pneumotorace. Dopo tre mesi guarì, ma doveva mangiar bene e star riguardata. Tra le spese per la malattia e il resto cominciai ad indebitarmi. Partecipai anche a qualche dibattito politico e a qualche comizio. Era il 1948. Un pomeriggio di domenica incontrai al cimitero una bella vedova che vedendomi lavorare mi propose un monumentino per il marito. Mi diede appuntamento a casa sua per prendere la foto da mettere sulla lapide e tornai una sera per prendere i soldi. Restammo insieme un po’ di tempo. Quando al cimitero vedevo le vedove che piangevano pensavo: però si consolano presto! Poco dopo mia sorella Armanda si sposó, cosi restammo io, i miei genitori e mio fratello. Votammo per la repubblica. Alle elezioni politiche votai per i comunisti credendo che cambiasse qualcosa, ma non cambioò nulla. Chi stava bene prima della guerra stava bene pure dopo, chi era povero prima era rimasto povero. Un giorno decisi di andare al mio paese per la festa della patrona S. Liberata. pag.29
Partii verso la mezzanotte del sabato sera, il mattino dopo alle 6 ero a Senigallia, aspettai la corriera delle 7 e andai al mio paese dopo circa 4 anni di assenza. Andai da mia zia Ida, sorella di mia madre, fui ricevuto bene, ma non andai a dormire. Alle 11 andai a messa e trovai i miei amici. Ero tornato anche perché intendevo riappacificarmi con la Irene, ma quel giorno non la vidi a messa. Andai a pranzo a casa di mia zia e lì vidi la foto di una ragazza abbastanza carina. Chiesi chi fosse e mia cugina Carmen disse che era la sorella del suo fidanzato e che abitava a Monterado. Mio zio, visto che guardavo la foto intensamente disse che poteva farmela conoscere. Non andai a dormire affatto perché dopo quattro anni avevo voglia di rivedere tutti i miei amici. In quattro anni ero cambiato, ero partito poco più di un ragazzo e ora avevo i capelli un po’ lunghi e ondulati, ben curati, avevo le basette un po’ allungate e due bei baffi neri, un bel vestito e al posto della cravatta un bel fiocco alla Mazzini. Ero un po’ ambizioso, a 29 anni. In paese feci abbastanza colpo, rividi qualche “fiamma” che avevo in tempo di guerra. Al momento della processione incontrai il mio vecchio amico Evaristo Rocchetti, parlammo un po’, poi il discorso cadde sulla Irene, la sorella della sua fidanzata, disse che era un po’ in rotta con il fidanzato e che lui poteva trovare l’occasione di farmela incontrare. Dissi che facilmente la domenica dopo sarei tornato. Finita la processione andammo al Circolo a hallare Rividi molte ragazze che conoscevo e molte che erano cresciute. Alle 8 di sera salutai i miei amici e andai a cena da mia zia, così conobbi il fidanzato di mia cugina e seppi che la ragazza della fotografia si chiamava Silvia. Mio zio disse che la domenica dopo sarei tornato per conoscerla. Andai a dormire con mio zio Leopoldo dopo aver salutato tutti. La mattina dopo mi alzai alle 6, presi il treno e arrivai a Terni verso mezzogiorno, mangiai, poi andai a dormire. Mio padre mi disse che Riccardo mi voleva parlare di un lavoro da fare nei magazzini di generi alimentari all’ingrosso che si trovavano fuori porta S. Angelo. Terminai il lavoro che facevo per il signor Fabbri, poi andai a parlare con il proprietario dell’ingrosso e promisi che avrei cominciato il martedì dopo. Sabato sera presi il treno per Senigallia. La mattina, arrivato a Roncitelli, andai da mio zio e in bicicletta andammo a Monterado. La Silvia che dovevo conoscere stava facendo le tagliatelle, era la più grande, sua madre era morta quando lei aveva 16 anni. Era una famiglia povera ma onesta, per quello che capii. Ci sedemmo a mangiare, lei era tutta indaffarata. Mentre pensavo che mi sembrava di averla già vista, mi ricordai che il mio amico Evaristo mi aspettava per farmi incontrare Irene. Pensai: “Dove vado a mettere la ruggine. La Irene era mezzo impegnata con il vecchio fidanzato, guardai bene la Silvia, non mi dispiaceva, aveva 23 anni e io 30, vizi non ne aveva, dava l’impressione di essere una buona madre di famiglia, le tagliatelle le sapeva fare, vidi che aveva delle belle gambe, cosiì pensai: “Sarà meglio che io mi fermi qui…..”
Questo episodio mi è stato raccontato da mio padre “Toto” e da mio zio “Nello”. Tutto si svolge nella zona che va dal cimitero di Roncitelli al fiume Cesano (Donnella-Bruciata), dove allora abitavano mio nonno Alfredo e la sua famiglia. La casa adesso è stata demolita, si trovava nei pressi dei capannoni che una volta erano dell’azienda Baldoni. È una storia di persone semplici, di privazioni, di ospitalità e forse di tanto ingenuo coraggio.
Scrivo come se fosse mio padre a raccontarla:
«Era la primavera del 1944, ultimo periodo della seconda guerra mondiale. le truppe tedesche di occupazione si ritiravano verso nord. Per diversi giorni una interminabile colonna di mezzi di tutti i tipi scendeva dalla collina del cimitero per dirigersi al di là del fiume Cesano. Gli alleati avanzavano molto lentamente. Quando trovavano una minima resistenza facevano entrare in azione l’artiglieria. Ci sono notizie di vittime anche tra i civili in quella zona.
Una mattina di maggio vedemmo avvicinarsi verso casa un uomo malamente vestito, con un cappello nero in testa. Camminava lentamente e sembrava molto sospettoso. Probabilmente stava cercando di capire cosa potesse trovare in quella casa. Era molto alto e snello, capelli biondi a spazzola. Ci disse di chiamarsi Wasyl e di essere russo. Parlando un italiano stentato ci fece capire di essere fuggito dai tedeschi che lo avevano fatto prigioniero. Aveva bisogno di nascondersi, se lo avessero trovato per lui ci sarebbe stato il plotone di esecuzione.
Aveva fame e noi lo invitammo ad entrare in casa, gli offrimmo da mangiare, la sua paura sembrò scomparire, forse aveva capito che quello era un luogo sicuro e che si poteva fidare di noi.
Wasyl ci raccontò che prima di arrivare nella nostra casa aveva chiesto ospitalità ad altre famiglie della zona, ma era stato sempre allontanato. Tutti in quel periodo avevano paura, ma in realtà era solo un povero soldato di 20 anni lontano da casa che voleva salvare la pelle. Parlammo con Wasyl per diverse ore e quando si fece sera nessuno di noi ebbe il coraggio di mandarlo via, così quel povero soldato sbandato aveva trovato un nascondiglio per salvare la sua vita.
Passarono giorni e settimane. Quando il fronte era tranquillo lui rimaneva in casa con noi, quando i tedeschi erano vicini si nascondeva nelle siepi o in mezzo ai covoni del grano, e a volte era costretto a rimanere nescosto anche per diversi giorni. Noi conoscevamo quei nascondigli e gli portavamo da mangiare.
Wasyl fumava, ma le sigarette in quei tempi erano una rarità. Una nostra parente che aveva trovato ospitalità nella nostra casa riusciva a procurargli dei pezzetti di foglie di tabacco raccolto in campagna ed essiccato al sole. Rimediando anche qualche fiammifero e carta di giornale Wasyl riusciva a farsi delle sigarette che fumava intensamente. La signora che gli procurava tutto ciò veniva affettuosamente chiamata “mamma Clara”.
Ricordo che quando fumava di notte teneva la sigaretta chiusa tra le mani. Aveva paura che la luce potesse essere notata dagli osservatori tedeschi che non avrebbero esitato un istante a far bombardare il luogo da cui proveniva quella debole luce.
Nelle giornate in cui Wasyl poteva rimanere a casa mangiava con noi. A lui era riservato il posto di capotavola, anche perché era il più vicino alla porta nell’eventualità di una visita improvvisa dei tedeschi. Per lui ogni attimo era prezioso per la fuga.
Una cosa tra le tante non potremmo dimenticare: qualche giorno a tavola eravamo anche 20-35 persone ma lui era l’unico che, prima di iniziare il pranzo si faceva il segno della croce.
Intanto il fronte si stava avvicinando, gli spari si facevano più frequenti, e verso la metà di agosto ci fu un’intera giornata di combattimenti. Quel giorno Wasyl rimase nascosto con noi in un rifugio che avevamo scavato vicino alla casa. Verso sera i tedeschi si ritirarono a nord del fiume Cesano. La notte trascorse in un silenzio assoluto, nessuno osava muoversi.
La mattina Wasyl mi chiamò, era rimasto tutto il giorno e la notte ad osservare il passaggio del fronte. Aveva visto avvicinarsi da sud una colonna di camion alleati: erano polacchi. Gli andammo incontro e loro ci offrirono vere sigarette, pane bianco e cioccolata.
Ma la guerra non era ancora finita. Anche se i tedeschi si erano ritirati di alcuni kilometri, continuavano i bombardamenti sulle avanguardie alleate per ritardare l’avanzata. Un proiettile di artiglieria colpì la nostra casa ferendo nostro padre Alfredo ed uccidendo mio fratello Silvio di 20 anni.
I combattimenti lentamente si diradavano. Wasyl voleva ricongiungersi agli alleati. Noi lo sconsigliammo, volevamo che restasse con noi per qualche altro giorno finché la situazione non fosse stata più tranquilla.
Una mattina, al passaggio di una colonna di camion che trasportavano truppe alleate, gli andammo incontro. Wasyl fece cenno ad un camion di fermarsi, questi si arrestò. Erano militari polacchi. Si scambiarono alcune frasi, fecero segno a Wasyl di salire e lui partì.
Erano trascorsi alcuni mesi quando una domenica mattina arrivò davanti alla nostra casa una camionetta militare inglese con tre soldati a bordo. Uno di loro era Wasyl, fecero colazione con noi e poi ci recammo insieme per una piccola gita al santuario della Madonna della Rosa. Al ritorno Wasyl e gli altri due pranzarono con noi trattenendosi fino a sera, poi ripartirono per raggiungere la loro base che era a Falconara.
Non lo rivedemmo più. Dopo un lungo silenzio ci giunse una sua lettera, era il 10 dicembre 1946, Wasyl diceva di trovarsi in Inghilterra. Era scritta in un buon italiano. Erano parole di riconoscenza per chi gli aveva salvato la vita.»
La sede era ubicata nei locali della Parrocchia (ex CIF) in via Borgo San Giovanni n°31. I soci iscritti al primo anno furono 40, mentre nel 1954 erano oltre 100.
Nel 1954 con una sottoscrizione dei soci venne acquistato un televisore “Radiomarelli” primo apparecchio televisivo presente in paese. Venne intallato nel teatrino parrocchiale dove i soci e paesani si recavano per assistere insieme alle trasmissioni del tempo.
Il Circolo Acli ha sempre rappresentato un punto di riferimento importante per la comunità di Roncitelli.
Nel depliant esplicativo sono riportate le attività e gli sviluppi nel tempo, le varie dirigenze, i gestori del bar, le varie sedi ecc… dalla nascita nel 1953 fino ai giorni nostri.
Iniziative e Feste
Enzo Francoletti-Bruno Moroni-Serpillo- Verdini Roberto-Cingolani Derna-Perlini Marisa1995 Cinquantennale delle ACLI di Roncitelli Renato Verdenelli (sopra) Gilberto Ulissi Presidente Provinciale A.C.L.I.
IL BOCCIODROMO
Il boccioromo realizzato soprattutto con il lavoro ed il contributo dei soci e della Parrocchia è stato inaugurato alla presenza del Vescovo Odo Fusi Pecci e del Sindaco di Senigallia Oddo Galavotti il 26 luglio 1986. In seguito ha ospitato gare locali intercomunali e regionali.
Moroni e RomanelliSantini (a sinistra) Tarsi Cesare – Francoletti Enzo – Giuliani Stefano – Verdenelli RenatoTarsi Cesare al tiroBozzi Cimarelli Dino al Bar e sua moglie Federiconi DinaAugusto Apolloni
IL TEATRO A RONCITELLI
Rino Lucchetti‘L tropp’ è com’ ‘l pog’. In scena Anna Tamanti e Renato Verdenelli“‘L tropp’ è com’ ‘l pog’ ““L’imbriago” con Ballanti Armando e Umberto FronziArmando Ballanti ne “L’imbriago”L’imbriago
SFILATA DI MODA
la sfilata di moda sponsorizzata dalla ditta “Alberto Abbigliamento” è stata realizzata nell’ambito della Festa “Settimana in Collina” nel 1993 da Orietta Moroni con indossatori ed indossatrici “nostrani”. Giovani e ragazzi del Paese hanno sfilato sul palco realizzato nel piazzale del Circolo A.C.L.I.
I POLITICI A RONCITELLI
La formazione, incontri culturali e politici, convegni, dibattiti sui problemi della frazioneIncontri culturali e politici, convegni e dibattiti sui problemi della frazione.